Al giorno d'oggi la prassi manageriale di
provocare un'atmosfera di urgenza o di presentare come stato di
emergenza una situazione probabilmente normale è considerata un
metodo molto efficace, spesso il metodo preferito, per
persuadere chi viene gestito ad accettare tranquillamente anche
cambiamenti drammatici che colpiscano al cuore le sue ambizioni
e prospettive o il suo stesso stile di vita. «Dichiara lo stato
di emergenza e continua a comandare», sembra essere la ricetta
manageriale sempre più in voga per esercitare un dominio
indiscusso e far passare gli attacchi più spiacevoli e
devastanti al benessere dei dipendenti, o per liberarsi della
forza-lavoro che non si vuol più tenere, lavoratori in esubero a
causa delle operazioni di «razionalizzazione» o scorporo delle
attività che si susseguono.
Forse nemmeno l'apprendimento e l'oblio sfuggono alle
conseguenze della «tirannia del momento», favorita e istigata
dal continuo stato di emergenza, e del tempo perso in una
successione di «nuovi inizi» disparati e apparentemente (ma
ingannevolmente) scollegati tra loro. La vita di consumo non può
essere altro che una vita di apprendimento rapido, ma ha anche
bisogno di essere una vita di oblio altrettanto rapido.
Dimenticare è importante come, se non più, che imparare. C'è un
«non si può» per ogni «si deve», e quale di questi due aspetti
riveli il vero obiettivo del ritmo vertiginoso di rinnovamento e
rimozione, quale dei due sia invece solo una misura ausiliaria
per assicurare che l'obiettivo sia raggiunto, è una questione
cronicamente opinabile e irrisolta. (...)
Siamo di nuovo alla questione dell'uovo e della gallina... Devi
«buttar via» il beige per preparare il viso a ricevere i nuovi,
vivaci colori, oppure sono questi ultimi che stanno inondando il
reparto cosmetici dei supermarket per garantire che le scorte
inutilizzate di beige vengano effettivamente «buttate via,
immediatamente»?
Molte delle donne che a milioni stanno buttando via il beige per
riempire la borsetta di cosmetici a colori vivaci direbbero
molto probabilmente che cestinare il beige è un effetto
secondario, deprecabile ma inevitabile, del rinnovamento e
miglioramento del make-up, un sacrificio triste ma necessario
per stare al passo con il progresso. Ma tra le migliaia di
direttori di negozio che stanno inviando ordini per il nuovo
assortimento qualcuno ammetterebbe, in un momento di sincerità,
che se gli scaffali dei cosmetici si sono riempiti di colori
vivaci ciò è accaduto per la necessità di abbreviare la vita
utile del beige, facendo in modo che il traffico nei grandi
magazzini rimanga intenso, che l'economia continui ad andare
avanti e che i profitti crescano.
Il Pil, indice ufficiale del benessere della nazione, non si
misura forse dalla quantità di denaro che passa di mano? La
crescita economica non è for-se alimentata dall'energia e
dall'attività dei consumatori? E il consumatore che non si dà da
fare per liberarsi di cose consumate o obsolete (o, meglio, di
tutto ciò che rimane degli acquisti di ieri) è un ossimoro: come
un vento che non soffi o un fiume che non scorra...
Sembra che entrambe le risposte di cui sopra siano giuste: esse
sono complementari, non contraddittorie. In una società di
consumatori e in un'era in cui la «politica della vita» sta
sostituendo la Politica con la iniziale maiuscola un tempo
ostentata con fierezza, il vero «ciclo economico», quello che
veramente fa andare avanti l'economia, è il ciclo del «compra,
godi e butta via». Che due risposte apparentemente
contraddittorie possano essere entrambe giuste nello stesso
tempo è precisamente la grande impresa compiuta dalla società
dei consumatori: e, probabilmente, la chiave della sua
stupefacente capacità di auto-riproduzione ed espansione.
La vita di un consumatore, la vita di consumo, non consiste nel
l'acquisire e possedere. E non consiste nemmeno nel liberarsi di
ciò che era stato acquisito l'altro ieri e orgogliosamente
ostentato ieri. Consiste piuttosto, in primo luogo e
soprattutto, nel rimanere in movimento.
Se aveva ragione Max Weber affermando che il principio etico
della vita di produzione era (e doveva essere sempre, se lo
scopo era una vita di produzione) il rinvio della
gratificazione, allora la linea-guida etica della vita di
consumo (se l'etica di una vita simile può essere presentata
sotto forma di un codice di comportamento prescritto) dev'essere
il rimanere insoddisfatti. (...)
Col passare del tempo, in effetti, non abbiamo più bisogno di
essere spinti o trascinati per sentirci così e agire in base a
questo sentire. Non è rimasto più niente da desiderare? Niente
da inseguire? Niente da sognare sperando che al risveglio il
sogno sia diventato realtà? Si è condannati ad accettare una
volta per tutte ciò che si ha (e dunque, per procura, ciò che si
è)? Non c´è più niente di nuovo e straordinario che si faccia
strada verso il palcoscenico per ricevere attenzione, e niente,
sulla stessa scena, da eliminare e di cui sbarazzarsi? Una
situazione di questo tipo ? di breve durata, si spera ? si può
chiamare solo con il suo nome: «noia». Gli incubi che
ossessionano l'Homo consumens sono le cose, animate o inanimate,
o le loro ombre ? i ricordi delle cose, animate o inanimate ?
che minacciano di trattenersi più del dovuto e occupare la
scena... (...)
L'economia dei consumi e il consumismo sono mantenuti in vita in
quanto i bisogni di ieri sono sminuiti e svalutati, e i loro
oggetti ridicolizzati e sfigurati come ormai obsoleti, e ancor
più è l'idea stessa che la vita di consumo debba essere guidata
dalla soddisfazione dei bisogni a essere screditata. Il trucco
beige, che la scorsa stagione era segno di sicurezza, ormai è
solo un colore che sta passando di moda, spento e brutto, e per
giunta un marchio di disonore, segno di ignoranza, indolenza,
inettitudine o complesso di inferiorità; l'atto che fino a poco
tempo fa denotava generalmente ribellione e azzardo e confermava
che si era «un passo avanti a chi fa tendenza» diventa ben
presto sintomo di pigrizia o codardia («Non è trucco, è una
coperta di sicurezza»), segno che ci si trova ormai in coda, che
si è persino al verde...
Ricordiamoci del verdetto della cultura consumistica: gli
individui che si accontentano di avere un insieme finito di
bisogni, che agiscono solo in base a ciò di cui pensano di avere
bisogno e non cercano mai nuovi bisogni che potrebbero suscitare
un piacevole desiderio di soddisfazione sono consumatori
difettosi, vale a dire il tipo di emarginati sociali specifici
della società dei consumatori. La minaccia e la paura
dell'ostracismo e dell'esclusione aleggiano anche su chi è
soddisfatto dell'identità che possiede e su chi si accontenta di
ciò che i suoi «altri che contano» lo portano a essere.
La cultura consumistica è contrassegnata dalla costante
pressione a essere qualcun altro. I mercati dei beni di consumo
sono imperniati sulla svalutazione delle loro precedenti
offerte, in modo da creare nella domanda del pubblico uno spazio
che sarà riempito dalle nuove offerte. Essi alimentano
l'insoddisfazione nei confronti dei prodotti usati dai
consumatori per soddisfare i propri bisogni, e coltivano un
perenne scontento verso l'identità acquisita e verso l'insieme
di bisogni attraverso i quali viene definita. Cambiare identità,
liberarsi del passato e ricercare nuovi inizi, lottando per
rinascere: tutto ciò viene incoraggiato da quella cultura come
un dovere camuffato da privilegio.
Un brano da "Consumo, dunque
sono" di Bauman, ed.Laterza, pagg. 199, euro 15
La Repubblica 7 novembre 2008