Sono cresciuta in un
Paese fantastico di cui mi hanno insegnato ad essere
fiera. Sono stata bambina in un tempo in cui alzarsi a
cedere il posto in autobus a una persona anziana,
ascoltare prima di parlare, chiedere scusa, permesso,
dire ho sbagliato erano principi normali e condivisi di
una educazione comune. Sono stata ragazza su banchi di
scuola di città di provincia dove gli insegnanti ci
invitavano a casa loro, il pomeriggio, a rileggere ad
alta voce i testi dei nostri padri per capirne meglio e
più piano la lezione. Sono andata all’estero a studiare
ancora, ho visto gli occhi sbigottiti di coloro a cui
dicevo che se hai bisogno di ingessare una frattura, nei
nostri ospedali, che tu sia il Rettore dell’Università o
il bidello della Facoltà fa lo stesso, la cura è dovuta
e l’assistenza identica per tutti. Sono stata una
giovane donna che ha avuto accesso al lavoro in virtù di
quel che aveva imparato a fare e di quel che poteva
dare: mai, nemmeno per un istante, ho pensato che a
parità di condizioni la sorte sarebbe stata diversa se
fossi stata uomo, fervente cattolica, ebrea o musulmana,
nata a Bisceglie o a Brescia, se mi fossi sposata in
chiesa o no, se avessi deciso di vivere con un uomo con
una donna o con nessuno.
Ho saputo senza ombra di dubbio che essere di destra o
di sinistra sono cose profondamente diverse,
radicalmente diverse: per troppe ragioni da elencare qui
ma per una fondamentale, quella che la nostra
Costituzione – una Costituzione antifascista - spiega
all’articolo 2, proprio all’inizio: l’esistenza (e il
rispetto, e il valore, e l’amore) del prossimo. Il
“dovere inderogabile di solidarietà” che non è
concessione né compassione: è il fondamento della
convivenza. Non erano mille anni fa, erano pochi. I miei
genitori sapevano che il mio futuro sarebbe stato
migliore del loro. Hanno investito su questo – investito
in educazione e in conoscenza – ed è stato così. È stato
facile, relativamente facile. È stato giusto.
Per i nostri figli il futuro sarà peggiore del nostro.
Lo è. Precario, più povero, opaco. Chi può li manda altrove, li finanzia per l’espatrio,
insegna loro a “farsi furbi”. Chi non può soccombe. È un
disastro collettivo, la più grande tragedia: stiamo
perdendo la fiducia, la voglia di combattere, la
speranza. Qualcosa di terribile è accaduto negli ultimi
vent’anni. Un modello culturale, etico, morale si è
corrotto. La politica non è che lo specchio di un
mutamento antropologico, i modelli oggi vincenti ne sono
stati il volano: ci hanno mostrato che se violi la legge
basta avere i soldi per pagare, se hai belle le gambe
puoi sposare un miliardario e fare shopping con la sua
carta di credito. Spingi, salta la fila, corrompi,
cambia opinione secondo la convenienza, mettiti al soldo
di chi ti darà una paghetta magari nella forma di una
bella presidenza di ente pubblico, di un ministero.
Mettiti in salvo tu da solo e per te: gli altri si
arrangino, se ne vadano, tornino a casa loro, crepino.
Ciò che si è insinuato nelle coscienze, nel profondo del
Paese, nel comune sentire è un problema più profondo
della rappresentanza politica che ha trovato. Quello che
ora chiamiamo “berlusconismo” ne è stato il concime e ne
è il frutto. Un uomo con un potere immenso che ha
promosso e salvato se stesso dalle conseguenze che
qualunque altro comune cittadino avrebbe patito nelle
medesime condizioni - lo ha fatto col denaro, con le tv
che piegano il consenso - e che ha intanto negli anni
forgiato e avvilito il comune sentire all’accettazione
di questa vergogna come fosse “normale”, anzi
auspicabile: un modello vincente. È un tempo cupo quello
in cui otto bambine su dieci, in quinta elementare,
sperano di fare le veline così poi da grandi trovano un
ricco che le sposi. È un tempo triste quello in cui chi
è andato solo pochi mesi fa a votare alle primarie del
Partito Democratico ha già rinunciato alla speranza,
sepolta da incomprensibili diaspore e rancori privati di
uomini pubblici.
Non è irrimediabile, però. È venuto il momento di
restituire ciò che ci è stato dato. Prima di tutto la
mia generazione, che è stata l’ultima di un tempo che
aveva un futuro e la prima di quello che non ne ha più.
Torniamo a casa, torniamo a scuola, torniamo in
battaglia: coltivare i pomodori dietro casa non è una
buona idea, metterci la musica in cuffia è un esilio in
patria. Lamentarsi che “tanto, ormai” è un inganno e un
rifugio, una resa che pagheranno i bambini di dieci
anni, regalargli per Natale la playstation non è
l’alternativa a una speranza. “Istruitevi perché abbiamo
bisogno di tutta la vostra intelligenza”, diceva l’uomo
che ha fondato questo giornale. Leggete, pensate,
imparate, capite e la vita sarà vostra. Nelle vostre
mani il destino. Sarete voi la giustizia. Ricominciamo
da qui. Prendiamo in mano il testimone dei padri e
portiamolo, navigando nella complessità di questo tempo,
nelle mani dei figli. Nulla avrà senso se non potremo
dirci di averci provato.
Questo solo posso fare, io stessa, mentre ricevo da chi
è venuto prima di me il compito e la responsabilità di
portare avanti un grande lavoro collettivo. L’Unità è un
pezzo della storia di questo Paese in cui tutti e
ciascuno, in tempi anche durissimi, hanno speso la loro
forza e la loro intelligenza a tenere ferma la barra del
timone. Ricevo in eredità - da ultimo da Furio Colombo
ed Antonio Padellaro – il senso di un impegno e di
un’impresa. Quando immagino quale potrebbe essere il
prossimo pezzo di strada, in coerenza con la memoria e
in sintonia con l’avvenire, penso a un giornale capace
di parlare a tutti noi, a tutti voi di quel che anima le
nostre vite, i nostri giorni: la scuola, l’università,
la ricerca che genera sapere, l’impresa che genera
lavoro. Il lavoro, il diritto ad averlo e a non morirne.
La cura dell’ambiente e del mondo in cui viviamo, il
modo in cui decidiamo di procurarci l’acqua e la luce
nelle nostre case, le politiche capaci di farlo, il
governo del territorio, le città e i paesi, lo sguardo
oltreconfine sull’Europa e sul mondo, la solidarietà che
vuol dire pensare a chi è venuto prima e a chi verrà
dopo, a chi è arrivato da noi adesso e viene da un mondo
più misero e peggiore, solidarietà fra generazioni, fra
genti, fra uguali ma diversi. La garanzia della salute,
del reddito, della prospettiva di una vita migliore.
Credo che per raccontare la politica serva la cronaca e
che la cronaca della nostra vita sia politica. Credo che
abbiamo avuto a sufficienza retroscena per aver voglia
di tornare a raccontare, meglio e più onestamente
possibile, la scena. Credo che la sinistra, tutta la
sinistra dal centro al lato estremo, abbia bisogno di
ritrovarsi sulle cose, di trovare e di dare un senso al
suo progetto. Il senso, ecco. Ritrovare il senso di una
direzione comune fondata su principi condivisi: la
laicità, i diritti, le libertà, la sicurezza, la
condivisione nel dialogo. Fondata sulle cose, sulla
vita, sulla realtà. C’è già tutto quello che serve.
Basterebbe rinominarlo, metterlo insieme, capirsi.
Aprire e non chiudere, ascoltarsi e non voltarsi di
spalle. È un lavoro enorme, naturalmente. Ma possiamo
farlo, dobbiamo. Questo giornale è il posto. Indicare
sentieri e non solo autostrade, altri modi, altri mondi
possibili. Ci vorrà tempo. Cominciamo oggi un lavoro che
fra qualche settimana porterà nelle vostre case un
quotidiano nuovo anche nella forma. Sarà un giornale
diverso ma sarà sempre se stesso come capita, con gli
anni, a ciascuno di noi. L’identità, è questo il tema.
L’identità del giornale sarà nelle sue inchieste, nelle
sue scelte, nel lavoro di ricerca e di approfondimento
che - senza sconti per nessuno - sappia spiegare cosa
sta diventando questo paese; nelle voci autorevoli che
ci suggeriscano dove altro sia possibile andare, invece,
e come farlo. Sarà certo, lo vorrei, un giornale normale
niente affatto nel senso dispregiativo, e per me
incomprensibile, che molti danno a questo attributo:
sarà un normale giornale di militanza, di battaglia, di
opposizione a tutto quel che non ci piace e non ci
serve. Aperto a chi ha da dire, a tutti quelli che non
hanno sinora avuto posto per dire accanto a quelli che
vorranno continuare ad esercitare qui la loro passione,
il loro impegno. Non è qualcosa, come chiunque capisce,
che si possa fare in solitudine. C’è bisogno di voi. Di
tutti, uno per uno. Non ci si può tirare indietro
adesso, non si deve. È questa la nostra storia, questo è
il nostro posto.
da l'Unità 26 agosto 2008