Nando dalla Chiesa :
Il primo a salire
sull’aliscafo fu un aitante signore a torso nudo. Un largo
cappello chiaro in testa e il passo del dominatore.
Centinaia di turisti di ritorno da Stromboli verso Napoli si
accalcavano intorno al piccolo ponte levatoio. Ognuno con il
proprio bagaglio a rimorchio.Tranne un gruppo di turisti che aveva lasciato sul pontile
le sue valigie e i suoi zaini. Enormi, numerosissimi.
Ammassati e poi consegnati diligentemente da un ragazzo ai
proprietari quando già erano sul ponte levatoio, così che
potessero insinuarsi nella coda con più agio.
Entrai anch’io facendo la fila con il mio bagaglio insieme a
mia moglie, anche lei con il suo seguito di valigia e
sacchetti. Andammo verso la parte anteriore dell’aliscafo,
che appariva praticamente deserta. C’erano solo il signore
aitante, che nel frattempo si era messo una camicia, e
pochissimi altri viaggiatori.
Scoprimmo però che quasi tutte le poltrone erano
“presidiate” da borsette e oggettini d’ogni sorta. Cercammo
dunque di sederci sulle poltrone vuote, ma il signore,
aitante più che mai, gridava che erano tutte occupate. Io
contestavo che non c’era nessuno. Lui mi guardò di traverso
e mi sibilò, dando a intendere di avermi riconosciuto:
«Proprio lei che è un democratico».
Lì per lì non capii che diavolo c’entrasse l’essere
democratici con il reclamare un posto a sedere. Lo
spettacolo era incredibile: quasi un quarto dell’aliscafo
era stato requisito dal signore in questione. A questo punto
protestai che non poteva farlo. Lui mi ripeté: «Lei che è un
democratico», stavolta dicendo la parola “democratico” come
Berlusconi dice “comunista”. E io risposi che proprio perché
ero un democratico non potevo accettare una prepotenza del
genere. Lui allora proclamò con tono offeso che erano posti
tenuti per i bambini. Gli chiesi come fosse possibile: il
gruppo di bambini che avevo visto sul pontile non superava
le dieci unità.
“Bambini” giurò, mentre i passeggeri neutrali iniziavano a
parteggiare per la mia causa. Poi arrivò il gruppone dei
suoi amici. I bambini erano cinque. C’era anche il ragazzo
che aveva passato i bagagli sul ponte levatoio, che risultò
essere suo figlio, e che evidentemente era stato applicato
da lui a quell’ingegnoso compito. Constatata la bufala dei
bambini, mi presi due posti di forza accanto a uno dei suoi
amici, visibilmente imbarazzato per la sceneggiata cui il
capo comitiva aveva costretto la compagnia.
Ma sull’aliscafo costui non era stato l’unico. Pur sapendo
che i posti erano tutti, ma proprio tutti occupati, come
accade a fine agosto al rientro dalle isole, decine di
viaggiatori tenevano sulla poltrona accanto alla loro ogni
tipo di oggetto. Per stare più comodi o per avere il
bagaglio pronto all’arrivo.
Si aprì così l’infuocata disputa tra la parte civile e
quella incivile dell’aliscafo. Con la richiesta al
comandante di intervenire a garantire i diritti dei
passeggeri. Finalmente a quel punto, grazie alle direttive
impartite imperiosamente via altoparlante, l’ordine fu
stabilito.
Qualcuno potrà pensare, magari traendo qualche conclusione
dal torso nudo, che il signore aitante e i suoi compagni di
viaggio fossero degli arrembanti turisti con tegami di
pastasciutta al seguito e il rifiuto facile sul pavimento.
Niente di tutto questo, ed è qui il guaio. Lui era un
imprenditore bresciano con master alla Bocconi. Tutti
avevano un libro in mano (la persona vicina a me era di
grande e piacevole cultura) ed erano vestiti con qualche
pregio. Gente da cui non ti aspetteresti mai che non abbia
interiorizzato in mezzo secolo e passa il principio della
fila e della occupazione del proprio posto, che non provi
vergogna a raccontare plateali panzane e che non si senta in
grado di fare un viaggio di qualche ora a distanza di pochi
metri dal proprio amico o parente.
Gente da cui non ti aspetteresti insomma che non conosca le
regole civili.
E infatti le regole le conosceva. E pure bene. Tanto che
quando vi un cenno di arrembaggio ai bagagli in vista del
golfo di Napoli, fu proprio lui, il signore aitante, che -
essendo seduto davanti a un immenso deposito di bagagli e
temendo l’assalto alla sua parte di aliscafo - incominciò a
tenere appassionate concioni sull’importanza delle regole,
sulla loro utilità per vivere tutti più ordinatamente,
discutendo animatamente con più di una signora e di un
giovane.
Qualcuno del personale di bordo disse: «Evabbe’, fate come
volete». Di nuovo si ebbe un confronto tra la parte civile e
quella incivile dell’aliscafo, anche se le due parti avevano
un po’ cambiato i loro confini. E di nuovo, su
sollecitazione della parte civile dei passeggeri, il
comandante fissò le regole per lo sbarco delle tonnellate di
bagagli.
Seppi infine, con mia sorpresa e amarezza, che
l’imprenditore bresciano era figlio di un imprenditore
ucciso molto tempo fa dalla mafia e di cui serbavo memoria
chiarissima. Mi resi conto che era saltata anche una regola
non scritta, come lo sono tutte le vere regole. L’ho sempre
vista praticare tra i familiari delle vittime della mafia:
ed è quella del reciproco riconoscimento e rispetto, oserei
dire affetto, che scatta verso chi ha subito la stessa
tragedia. Per la prima volta avevo visto quel legame di
solidarietà infranto.
L’imprenditore mi aveva riconosciuto; ma aveva anteposto a
quel rapporto di rispetto il suo fastidio per il mio essere
“democratico” e l’interesse più piccolo e minuto, quello a
sedersi tutti insieme, della sua comitiva, del suo moderno
clan.
Ecco come attraverso gli episodi minimi si può rappresentare
l’Italia, la qualità dei suoi problemi veri, profondi. La
sua incapacità di superare la storica distanza (quanto ci si
arrovellò Sylos Labini...) tra sviluppo economico e sviluppo
civile, la doppiezza delle regole (valgono per me ma non
valgono per te), l’incertezza del diritto, la rottura dei
principi più sacri di solidarietà, la latitanza delle
istituzioni, che invece di muoversi autonomamente si muovono
solo su pressione dei cittadini e dell’opinione pubblica.
Cose grandi, che dovrebbero impegnare un grande partito. I
Paesi crescono con le infrastrutture materiali.
Ma hanno anche e soprattutto bisogno delle infrastrutture
immateriali: il senso delle regole, il riconoscimento di
diritti e doveri, la fiducia e la solidarietà, l’autorità
responsabile, la cultura civile. Il guaio è che a usare in
massa i cellulari ci si mettono due anni, a imparare a fare
la coda ci vogliono decenni. E sono questi che fanno la
differenza.
da
L'Unità 3 settembre 2008