Ho lasciato il mio
Paese nel 1947, a soli 33 anni, per gli Stati Uniti, per
poter sviluppare le ricerche scientifiche che mi hanno
fatto meritare il Premio Nobel per la Medicina, molti
anni dopo, nel ´75.
Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la
situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia
non è cambiata, anzi. Lo dimostrano i più di mille
ricercatori italiani sparsi per il mondo che hanno già
riposto all´appello di questo giornale e che hanno
dovuto, come me, lasciare il Paese per dedicarsi alla
scienza. Il mio rammarico non è una questione di
nazionalismo: la scienza per sua natura ignora il
concetto di Patria, perché è e deve rimanere universale.
Anzi, penso sia importante per uno scienziato formarsi
all´estero e studiare in una comunità internazionale.
Tuttavia dovrebbe anche poter scegliere dove sviluppare
le sue idee e i frutti del suo studio, senza dover
escludere del tutto il Paese dove è nato. Ciò che mi
dispiace profondamente è toccare con mano l´immobilismo
di un´Italia che sembra non curarsi della ricerca
scientifica, esattamente come nel dopoguerra.
Come se più di mezzo secolo di esplosione del progresso
scientifico fosse passato invano. Chi vuole fare ricerca
se ne va, oggi come ieri, per gli stessi motivi.
Perché non c´è sbocco di carriere, perché non ci sono
stipendi adeguati, né ci sono fondi per ricerche e le
porte degli (ottimi) centri di ricerca sono sbarrate
perché manca, oltre ai finanziamenti, l´organizzazione
per accogliere nuovi gruppi e sviluppare nuove idee.
Perché non esiste in Italia la cultura della scienza,
intesa come tendenza all´innovazione che qui, negli
Stati Uniti, è privilegiata in ogni senso ed è il motore
del cambiamento.
Ciò che è cambiato concretamente, rispetto ai miei
tempi, è che la ricerca scientifica, spinta dalla
conoscenza genomica che è stata al centro del miei studi
e oggi rappresenta il futuro, richiede molti più
investimenti in denaro e persone rispetto a 60 anni fa.
Si allungano così le distanze fra Paesi che investono e
quelli che non lo fanno. L´Italia rischia, molto più che
negli anni Cinquanta, di rimanere esclusa
definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al
progresso scientifico e civile.
Io sono uno scienziato e non ho la ricetta per salvare
la ricerca italiana, ma proprio come "emigrato della
ricerca " posso dire che i modelli ci sono, anche vicini
ai nostri confini, senza guardare agli Stati Uniti, che
sicuramente hanno una cultura e una storia molto diversa
dalla nostra. Basterebbe iniziare a riflettere dal dato
più semplice. Un Paese che investe lo 0,9% del proprio
prodotto interno lordo in ricerca, contro la media del
2% degli altri, non può essere scientificamente
competitivo né attirare a sé o trattenere i suoi
ricercatori migliori.
La Repubblica
19 novembre 2008