Due scrittori fanno a cazzotti e uno
dei due (Antonio Scurati) urla all' altro (Tiziano
Scarpa): «Sei il sintomo della degenerazione della
società intellettuale italiana». Poi, dopo un' altra
gragnuola di pugni, sibila: «Per me questo è un congedo
definitivo, anche luttuoso, dal cadavere della società
letteraria». Goffredo Fofi, lei ha partecipato a riviste
come Quaderni piacentini, ha fondato Ombre Rosse, Linea
d' ombra, La terra vista dalla luna, ora dirige Lo
straniero, ha scritto di letteratura e di cinema, oltre
a fare tante altre cose, le domando: esiste ancora in
Italia quel complesso di istituzioni, uomini e idee che
possiamo definire una società letteraria?
«Non credo proprio».
Ma un tempo esisteva, lei ne è rimasto fuori,
ma l' ha scrutata e raccontata da "minoritario per
vocazione".
«Certamente è esistita. Era
compatta, regolata da solidi meccanismi di potere. A
Roma c' erano il cinema e la tv, a Milano l' industria
editoriale, a Torino l' Einaudi. È durata fino agli
ultimi anni Settanta, ma già negli Ottanta il panorama
era completamente diverso. E non solo per la
letteratura: in fondo in quegli anni finiva una storia e
finiva anche l' ultimo tentativo nel mondo di inventarne
uno nuovo».
Forse le due cose sono persino collegate. Ma
intanto che cosa successe in particolare nella
letteratura?
«La letteratura ha cambiato
natura. Per la verità l' hanno cambiata in genere le
arti. Entrambe vengono vendute come una merce e i
lettori sono ora indotti a considerarla solo come tale.
Sono saltate tutte le funzioni di mediazione: la
critica, in primo luogo, ma anche i giornali. Non ci
sono più riviste. Nessuno si dedica alla formazione di
un pubblico, nessuno si preoccupa di orientarlo, se non
per indirizzarlo verso i fenomeni di consumo».
È il deserto.
«Non direi. Per esempio la nostra narrativa vive
una stagione felice. Vado spesso in Francia - la mia è
una famiglia di emigranti, lì ho molti parenti - e non
trovo la stessa vivacità».
Faccia qualche nome.
«Un po' a casaccio e limitandomi
al Sud: Nicola Lagioia, Andrea Piva, Giorgio Falco, i
napoletani Saviano, Montesano, Parrella, Braucci. Ma ne
posso aggiungere tanti, non passa mese senza che legga
un buon romanzo italiano».
Tutti più o meno giovani.
«Sì. La generazione di Scarpa mi
pare travolta dal culto postmoderno che ha praticato.
Arrivava sempre uno scrittore nuovo che scacciava i
precedenti. Vedo invece, a volte persino con commozione,
autori nati negli anni Ottanta che colgono il terribile
intreccio fra vecchie barbarie e nuove tecnologie. Sono
più attrezzati dei loro predecessori pulp, hanno
migliori anticorpi».
Nonostante questo, lei dice, non c' è società
letteraria. O sbaglio?
«Per esserci, insisto, ci
dovrebbero essere buoni mediatori. E anche maestri. Che
ne so: Calvino o la Morante, Nicola Chiaromonte o Cesare
Cases. Invece l' informazione, gli assessori alla
cultura, la tv sono delle piaghe. Svolgono un ruolo
nefasto che compiace lo smaccato individualismo, il
narcisismo diffuso e alimenta le baruffe tra servi. La
critica non esiste più, c' è l' accademia, ma la critica
militante si è eclissata, sono spariti i recensori, c' è
solo la comunicazione pubblicitaria».
Lei però insiste a fare riviste.
«Mi ostino a inventarle e a
tirarle avanti perché sono convinto che siano strumenti
formidabili di incontro e che la critica letteraria
abbia certo bisogno di spiccate personalità, ma deve
alimentarsi nella discussione di gruppo. L' artista è
solitario, il critico no . Anche se non amo i gruppi
particolarmente organizzati e preferisco sempre parlare
di "Nessuno si dedica alla formazione del pubblico. Una
volta i bestseller erano la Morante o Calvino" "area",
che mi fa pensare ad "aria", a qualcosa che si muove
senza barriere».
Su internet c' è grande vivacità,
discussioni, critiche, recensioni...
«In parte è così. Ma anche lì noto
il dominio assoluto dell' individualismo. Si viene
inondati di prediche, c' è poca costruzione di idee,
prevale lo sfogo di frustrazioni. Penso che manchino i
sollecitatori, quelli che non lavorano solo per sé
stessi e che non pensano al suicidio se la tv li ignora
o se non hanno una rubrica sul grande quotidiano».
Mi pare che il problema riguardi non solo la
letteratura o i giornali.
«Certo, riguarda la cultura e l'
etica. Il punto è che in questo mondo si sente la
mancanza di una specie di Super-Io collettivo, un
Super-Io morale. Prevalgono l' individualismo o il finto
individualismo. Christopher Lasch chiamava questo
fenomeno "la cultura del narcisismo", cresciuta sul
fallimento dei movimenti e delle spinte rivoluzionarie
degli anni Sessanta e Settanta...».
...chiusi dai terribili anni Ottanta. Eppure
negli anni Ottanta lei dirigeva Linea d' ombra. Qualcosa
si poteva pur fare.
« Linea d' ombra si assumeva in
gran parte compiti di resistenza, in quel periodo che
considero uno dei più stupidi della nostra storia. Si
poneva compiti di collegamento, di trasmissione e anche
di comprensione di quei terribili cambiamenti. Ci
sforzavamo di fare da ponte fra i vecchi (da Bobbio alla
Morante, da Bilenchi, Zanzotto e quelli dei Quaderni
piacentini) e i giovani, fra gli scrittori e i critici,
fra i laici e i credenti, fra il Nord e il Sud».
Torniamo alla letteratura?
«Sì, per dire che oggi, nonostante
i numerosi e buoni scrittori, si scrive troppo
velocemente e subito si è risucchiati da una moda. Non
esistono più la seconda e la terza opera. Si creano
ambizioni sbagliate e aumentano, appunto, le
frustrazioni».
È colpa anche degli editori?
«L' editoria è dominata da figure
nuove rispetto a quando lavoravo per Einaudi, la
Feltrinelli o Garzanti. Non che non ci siano bravi
redattori o, come si dice oggi, editor. Ce ne sono
tanti, li conosco. Il fatto è che sono condizionati da
una dirigenza che chiede best seller, libri per i premi,
e che mira ad appiattirli. A loro volta gli editor
premono sugli autori, vorrebbero trasformarli in
sceneggiatori di fiction».
Lei non ama i best seller, vero?
«Non è vero. Una sera, anni fa,
se ne discusse a Milano con Umberto Eco e, mi pare,
Giancarlo Ferretti. Io sostenevo che non si dovesse
avere alcun disprezzo per la cultura di massa e che i
best seller li determinava e in qualche modo li scriveva
il pubblico. Me lo ricordo bene quel dibattito, doveva
partecipare anche Eric Linder, il grande agente
letterario. Ma non venne perché stava male e la notte
morì. Una volta i best seller erano La Storia di Elsa
Morante oppure Se una notte d' inverno un viaggiatore di
Italo Calvino. Ora li si vuol fabbricare e pubblicizzare
come se fossero una qualunque merce. Poi si prendono
cantonate terribili oppure si resta sorpresi, come è
accaduto alla Mondadori con Gomorra ».
Chiudiamo guardando avanti. Che cosa occorre,
secondo lei, perché la società letteraria non produca
solo merce?
«Le forze ci sono per evitare che
la letteratura si traduca in intrattenimento. Mi
accontenterei di costruire piano piano
forme di resistenza alla
robotizzazione e alla disumanizzazione. E anche di
vedere che nascano gruppi o che quelli che ci sono si
coordinino fra loro. Ma senza fretta. I tempi sono
quelli che sono».
http://www.repubblica.it — 14 agosto 2009