Sono a Coredo, io, nel 1988, un piccolo paese
della ricca Val di Non, di fronte a Clés,la località a più alto
reddito medio d’Italia, dove è avvenuta la nascita del campione
transeunte di ciclismo Fondriest. L’uomo dispone di campi:
meleti e qualche attività di maggese da svolgere con il suo
trattore dai denti allungati, verniciati di rosso limpido,
affilatissimi, ruotano nello spazio falciando prima che avvenga
la selezione. L’uomo, da pochi giorni, è padre di una bambina
che arriccia il muso e vede ombre confuse e tra quelle ombre
confuse sta per aggiungersene una nuova, di nuova grana
teologica. Il campo non uccide? Sempre ha ucciso. Da piccolo, in
Sicilia, nella distesa di grano verso le colline che
fronteggiano la vista dell’isola azzurra Levanzo delle Egadi,
sfiorai la falce, per curiosità bambina, il taglio si allargò
senza impulsi nervosi, nessuna scossa di dolore, soltanto
l’allargarsi del sangue, a macchia, e il tetano corrosivo che
innalzò la febbre e appena in tempo fu curato. I denti metallici
del trattore nei campi di Coredo in Val di Non sono sterili, non
è tetano la minaccia. La minaccia è ovunque. Sempre,
ripetutamente di istante in istante. Ninive dalle porte d’oro,
chi la costruì? E’ innalzato semieretto al cambio, l’uomo
trentino, il neopadre nel profumo che stordisce della
fienagione, quando scivola in avanti, la disgrazia, il rischio,
l’incombere perenne della falce assoluta, e la tritura avviene,
orripilante, grano rosso sangue, i denti macinano, la macchina
digerisce il corpo, le urla si infrangono sui pomi acerbi, sui
pomi bitorzoluti si infrangono gli stridii animali della
neonata, la morte non è bianca, non è mai bianca. Incombe,
sempre. Ai tempi in cui ero nelle elementari un idiota con lo
scapolismo alare e il ginocchio valgo, povero di sostanze e
ricco di oscuri presentimenti, la scuola Tommaso Grossi fu
impalcata e dalle tubature di ferro corrose dalla ruggine venne
giù un'operaio, diciott'anni, rimase paralizzato a vita. Anni
dopo, anni di stratificazioni successive di traumi di cui si
ignora la natura, il suo corpo dislocato male, sulla carrozzina
per disabili degli anni Settanta mentre Tangentopoli pressava
dalla falda acquifera milanese, lui era lo spacciatore
prediletto e colui che con precisione scientifica abbatteva i
piccioni unti dai loro rifugi nelle muraglie scrostate delle
case popolari: con un fucile a pallini di piombo. Non parlava,
grugniva, il sogno del porco di Paul Celan in una foresta
abitata da primati che, come lui, non morto ma bianco per la
leucemia sopravvenuta nel frattempo, ingigantivano il mio
disagio. L’imprenditore non era assicurato, si era suicidato, la
moglie lo aveva ritrovato nel capannone verso Chiaravalle, tra
auto sfondate e intrise d’acqua, pozze di acqua stagna e
contaminata sotto la pedaliera, e nel capannone di alluminio e
plastica verde ondulata era in rigor mortis da un giorno, non
più roteante su se stesso, il pendolo si era arrestato, il corpo
sospeso in aria, un angelo marmoreo che ha tradito, il demone
cristallizzato che sporge la lingua bluastra dalle labbra
cianotiche, i denti digrignati mentre dalla fessura cranica
uscivano le perle nere della colpa e le gemme smeragdine delle
gioie e dei ricordi. Ricorda, Nino, paraplegico: “Io non gli dò
dello stronzo. Se non altro piglio il sussidio e vabbè, scopo
pure, la roba la smercio più facilmente perché ai disabili l’Aler
dà gli appartamenti a piano terreno. Potevo morire io, non mi
ricordo, però è morto lui”. E’ morto l’imprenditore. L’ambiguità
incombe con più intensità della falce. Capovolgi l’occipite, fai
ruotare l’umor cerebrale, punta agli strati più arcaici, risali
a esistenze anteriori in una ipnosi regressiva propinata in una
trasmissione new age dal servizio pubblico televisivo. Immagini:
schiavi che sopportano pesi immani nella terra del Faraone che
vuole sancire l’Immagine a prezzo delle vite nude di uomini:
coloro che trasudano aspettativa di morte a ogni passo. I loro
cadaveri maciullati, il frassino delle ossa sfarinatosi – buio,
dimenticàti. Dimenticate le vedovanze, gli orfani cresciuti
sotto altri climi e vegetazioni. Dare la vita per l’Immagine,
perché l’Immagine trafori il buio della morte e sopravviva
all’erosione del liquido corrosivo del tempo. Entrare nel buio
mentre l’estrema pietra angolare, la tonnellata di tufo perenne,
sbalestra gli arti ed emorragizza il corpo sacrificato
all’Immagine e il ricordo di lui, morto, sfuma nell’arco di un
secolo– il battito di palpebra con cui misuriamo la nostra
rettitudine e la nostra scelleratezza. Le palme immobili
nell’afa tremolano nella calura, esposte alle bolle termiche
rilasciate da giardini, prima che giunga la sabbia, la grande
invasione della sabbia. Le palme testimoniano che fu lì, accadde
lì. Nessuna restrizione per l’Immagine, nessuna sanzione. La
morte è buia, quando il sacro parla. Scossa, lampo, sinapsi
accesa, memoria del sottosuolo corticale. Le bolle a verticali a
forma di corpo umano nel cuore intimo della Grande Muraglia: a
migliaia. Una milizia di spettri sepolti nell’intercapedine,
contenuti dai mattoni ricavati aggregando la sabbia desertica,
migliaia di chilometri di bolle buie nell’interno della
Muraglia, dove si sono sfaldate le materie dei corpi di chi
poneva le pietre stabili, di chi vacillò sull’asse lignea del
supporto retto da una corda abusata, di chi sforzò i ventricoli
in eccesso sotto il peso fosforico di materiali che durano. Non è
vero che la Grande Muraglia cinese sia visibile dalla Luna. E’
una leggenda metropolitana, fattasi planetaria. L’uomo è
cancellato nella sua opera, a poca distanza. Sono i veri soldati
dell’Impero Huan, sono il contraltare di quei militi in
terracotta, gli operai schiavizzati che resistono in forma di
incavo vuoto e segreto, cementati dentro la Muraglia, la loro
tomba epocale in vista planetaria, l’idea di spettacolo che
fiorisce in germogli immani. La morte è vuota. Ma qui, oggi,
nessuna Immagine. L’immagine di Luca Cordero di Montezemolo, che
una leggenda metropolitana racconta essere il figlio segreto di
Gianni Agnelli, un uomo quest’ultimo che non ha espresso alcuna
Immagine e ha goduto nel farsi triturare la carne e le narici
nelle rotative dei rotocalchi per sessant’anni – l’immagine di
Luca Cordero di Montezemolo che fugge da piazza San Carlo verso
San Babila, ai funerali dell’editore bambino Leonardo Mondadori,
io stravolto dall’affetto che osservo questo imprenditore che ha
risollevato le sorti della Ferrari e risolleverà le sorti della
Fiat e si solleverà a capo rappresentante di tutti gli
industriali: questa immagine che non è un’Immagine, ma un corpo
snodato, magro, quasi femmineo, abbigliato raffinatamente, e
sfugge alle domande volatili dei giornalisti che accennano al
passo di una rincorsa priva di slancio aereo. L’immagine di
questi imprenditori, discendendo nella scala gerarchica, i
grandi, i medi, i medio-piccoli. I Falck che hanno dismesso le
attività in quel girone perforato dagli altiforni a Sesto San
Giovanni, dove le dita saltavano al tornio e gli operai morivano
nei fumi tossici delle colate, e oggi, col lavoro nero
legalizzato dalla legge Biagi, queste immagini che si contentano
della piccola lussuria che gli concede la minima ambizione in
cui si ravvoltolano, questa idea di minimo potere che decreta la
depredazione di tutto, per cui l’umano è equiparabile allo hedge
fund, al future e al bond. Questi imprenditori con i capillari
rotti sul naso spugnoso, buccinanti americano dilettantesco con
forte accento veneto. E gli altri, i reclutatori delle junk
humanities disperse nei campi al Sud. Questi ricchi non
accederanno mai al Regno dei Cieli e, del cammello, non solo non
hanno il passo ma neppure lo sguardo nirvanico che testimonia
quanto bianca sia la morte che impongono, quanta abissale sia la
loro berciatura mentre le leggi non si applicano, mentre il
senso svapora e la morte bianca è tale perché non è costruita
un’Immagine che abbia senso, bensì alacremente titoli privi di
materia, che non rimandano più ad alcuna materia, il serpente
del denaro resosi immateriale e fosforico nel cielo mentale di
Don De Lillo in Cosmopolis – sia bianca la loro vita, nero il
nostro dispregio, oscura ed efficace la crepa che si è aperta,
aureo il ricordo dei nomi degli sterminati. Poiché io sono lo
scrittore e lavoro all’Immagine e la mia mano è tremenda:
maledizione su di voi.
da Satisfiction n-3
" Le morti"
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