[...]
E tuttavia, una volta arrivati alle ultime pagine di
La fine è il mio inizio. Un padre racconta al
figlio il grande viaggio della vita, il
testamento spirituale di Terzani, il suo
breviario ultimo e definitivo che la Longanesi
pubblica il 16 marzo, un dubbio finisce per
insinuarsi nel lettore: chi è, fra i due personaggi
della fotografia, quello pronto a dare all'altro il
sostegno più vero? L'uomo giovane nel pieno delle
forze? O l'uomo malato che alla fine del cammino,
grazie a un lavoro di intenso tirocinio sul proprio
io, varca la porta stretta della conoscenza per
diventare maestro di un morire sereno e pacificato,
senza paura e senza tragedia?
«Mi sento leggero» confessa Terzani nel
libro. «Ho il senso che non mi tocca più
nulla, perché non sono quella maschera che ho sempre
portato, non sono questo corpo, non sono i miei
ricordi... Sono una cosa molto più grande, molto più
piccola, molto più particolare, ma non sono niente
di tutto quello. E proprio perché non sono niente di
specifico, mi posso permettere di pensare che sono
tutto».
Al figlio, tre mesi prima della morte, il 12
marzo 2004, il padre scrive una lettera:
«Mio carissimo Folco, sai quanto odio il telefono e
quanto mi è ormai difficile, con le pochissime forze
che ho, scrivere anche due righe così...».
E gli rivolge un invito: «E se io e te ci sedessimo
ogni giorno per un'ora, e tu mi chiedessi le cose
che hai sempre voluto chiedermi, e io parlassi a
ruota libera di tutto quello che ti sta a cuore,
dalla storia della mia famiglia a quella del grande
viaggio della vita? Un dialogo fra padre e figlio,
così diversi e così uguali, un libro testamento che
toccherà a te mettere insieme». E poi la
conclusione: «Fa' presto, perché non credo di avere
molto tempo».
Padre e figlio si sono incontrati.
Lui ancora in forze, ma via via sempre più piegato
dal male, la sdraio sul prato, un berretto di lana
viola in testa e una coperta indiana sulle gambe;
Folco che avvia il registratore e lascia parlare il
Babbo (sempre scritto con la maiuscola) sullo sfondo
della loro casa di montagna a Orsigna («La piccola
Himalaia») sull'Appennino toscoemiliano. Un
colloquio di quasi 500 pagine.
Le risposte del padre trascritte dal figlio,
in un libro che i milioni di lettori delle opere di
Terzani, soprattutto quelli di Un altro giro di
giostra (500 mila copie grazie a un passaparola
che non conosce sosta), attendevano come un evento.
Una vita piena in tutte le sue tappe:
l'educazione severa nella Firenze del dopoguerra,
l'amore, la passione per il giornalismo, il lavoro
di inviato nel continente asiatico, i viaggi, gli
amici, la moglie Angela, Folco e la figlia Saskia. E
poi la malattia e la ricerca del Senso da parte del
viandante che, avendo scelto la zattera della
spiritualità di quell'Oriente tanto investigato e
amato, affronta la tempesta dell'oceano ritrovando
alla fine del viaggio leggerezza e perfino allegria.
«Folco, Folco, corri, vieni qua! C'è un cuculo nel
castagno. Non lo vedo ma è là che canta la sua
canzone: Cucù, cucù, l'inverno non c'è più... Che
gioia, figlio mio.
Ho sessantasei
anni e questo grande viaggio della mia vita è
arrivato alla fine. Sono al capolinea. Ma ci sono
senza alcuna tristezza, anzi, quasi con un po' di
divertimento. L'altro giorno la Mamma
(sempre scritto con la maiuscola, ndr) mi
ha chiesto: se qualcuno telefonasse e ci dicesse di
avere scoperto una pillola che ti facesse campare
per altri dieci anni, la prenderesti? E io
istintivamente ho risposto: no! Perché non la
vorrei, perché non vorrei vivere altri dieci anni.
Per rifare tutto quello che ho già fatto?
Sono stato nell'Himalaia, mi sono preparato per
salpare per il grande oceano di pace e non
vedo perché ora dovrei rimettermi su una barchetta a
pescare, a far la vela. Non mi interessa».
E allora, visto che l'approdo è ormai raggiunto, non
resta che esplorare il mare della memoria per
ricostruire la rotta del viaggio.
[...]
Davanti a queste parole viene in mente il Terzani
visto nel dvd Anam il Senzanome (50 mila copie,
Longanesi) girato da Mario Zanot a Orsigna e
trasmesso in tv.
Ma la voce, allora, era più ferma. «Non ce la
faccio, Folco, devo riposare» sussurra il Babbo.
Respira a fatica, tossisce, ansima. «Un'ora per
lavarmi...». E Folco: «Ti faccio la puntura. Trenta
chili credi avere perso?». «Eh sì, non lo vedi?
Guarda qui, Folco, guarda! Te lo voglio far
vedere perché devi capire le mutazioni di un uomo».
«Hai lo stomaco grossissimo». «E le braccia sono
pelle e ossa e ora anche le gambe». La malattia
artiglia il corpo, ma il Babbo si limita a
guardarla, a lasciare che il mistero e la crudeltà
della vita scorrano, «che tutto succeda senza che
sia una tragedia».
Del resto non glielo aveva insegnato quel saggio
indiano, il Vecchio, come lo chiama lui in Un
altro giro di giostra? Il Vecchio che aveva
incontrato durante i mesi meravigliosi passati sulle
pendici dell'Himalaia a ragionare sui Veda e le
Upanishad, i versi della Bhagavad Gita e gli
insegnamenti del Buddha. E che fin dal primo
incontro, quando il Babbo gli aveva parlato
del suo cancro, se ne era uscito con quella
frase che lui si era affrettato a trascrivere: «Sono
le malattie a produrre la morte o è la morte a
produrre la malattie?».
E proprio allora il Babbo aveva compreso che
bisognava cominciare di lì, dalla riflessione sulla
sua mortalità e dalla comprensione della paura che
deriva da quell'immagine terribile, la cupa
falciatrice con la clessidra, nella quale la
tradizione occidentale identifica la morte.
E si era messo subito a lavorare su di sé, a capire
e a guardare il proprio io, a imparare il distacco e
a riconoscere l'impermanenza del Tutto. «Il giorno
in cui riuscirò a rompere il tuo Ego» diceva il
Vecchio «il puzzo arriverà fino al cielo».
Ora il Babbo è tranquillo. Ha scritto
l'ultima breve lettera ai familiari chiedendo di
essere cremato e che le ceneri tornino a Orsigna.
Ha chiuso con queste parole: «Grazie, e fatevi una
bella risata». È pronto. Folco va a radunare le
papere che ha fatto uscire nella tenuta, la giornata
di fine luglio si prepara al tramonto. Ma
prima di sera succede qualcosa. A un tratto il Babbo
fa un gesto, fatica a muoversi, si sforza di
comunicare con Angela: «Non ce la fo» dice con un
filo di voce. Accorrono, lo aiutano a
distendersi sul letto, la Mamma gli massaggia le
mani: «Non ce la fo...».
È venuto il momento. Da tempo il Babbo si è liberato
di bagagli, ricordi, aspettative. Un altro giro di
giostra sta per cominciare, la fine sarà il nuovo
inizio. Folco lo guarda commosso e ricorda la
raccomandazione che Tiziano gli ha rivolto qualche
giorno prima: «Ricordati che il titolo dell'ultimo
capitolo del libro deve essere quello che ti ho
detto io». «Ma certo, Babbo». Una sola parola: Cucù.
PANORAMA
17/7/2006
Per chi volesse leggere per intero l'articolo andare
in rete
http://archivio.panorama.it/home/