Dopo il crollo del socialismo, anche il liberalismo pare
fallito. Ma la vita pubblica ha bisogno di ideali
Il duello prima era cominciato sui libri, ma, nel secolo
scorso, si era trasferito sul grande palcoscenico del mondo,
spaccandolo in due fronti ferocemente contrapposti. Aveva
acceso grandi passioni, era costato tragedie immense. Poi,
sembrava si fosse concluso con la piena vittoria dell’uno e
con la disfatta teorica e pratica dell’altro. Ora,
all’inizio del nuovo secolo, pare che lo stesso presunto
vincitore debba arrendersi alla crudeltà di una storia che
vorrebbe mettere pure lui in soffitta. Accanto al vecchio
nemico, nel cimitero delle idee che non servono più.
Davvero, dopo il socialismo anche il liberalismo, con la
crisi economica mondiale che ha spento le illusioni sulle
virtù autoregolatrici del mercato e sui vantaggi dello
«Stato minimo» alla Robert Nozick, è fallito? Dobbiamo
archiviare le due grandi utopie che, nel XX secolo, si sono
sfidate nei sogni dei giovani di tutto il mondo e
rassegnarci a vivere in una democrazia dove basta il
rispetto delle regole costituzionali per esaurire le
passioni politiche e civili dei cittadini? Così, non si
riduce questa nostra democrazia a un meccanismo di
procedure, senza un’anima, in un gioco freddo ed estraniante
di poteri che usano il popolo come strumento di una lotta
che sostanzialmente lo esclude dalle decisioni fondamentali?
Si può partecipare alla vita pubblica, senza ideologie
trascinanti e globali, senza valori che scuotono le
coscienze e agitano, oltre che i pensieri, anche i
sentimenti? «La democrazia», ricorda Franco Sbarberi, uno
degli allievi di Norberto Bobbio che più ha studiato proprio
i rapporti tra socialismo e liberalismo, recente curatore
del volume La forza dei bisogni e le ragioni della libertà (Diabasis),
«non dev’essere vista come un insieme di regole che servono
a tutelare il gioco politico, come se non ci fossero valori
dietro: soltanto un processo di democratizzazione
permanente, quella “rivoluzione democratica continua” di cui
parlava Tocqueville, evita il rischio di tornare indietro,
di trovarci in quella abulia morale e politica oggi molto
generalizzata, soprattutto tra i giovani».
«Così come non si nasce liberi, ma lo si diventa», aggiunge
Sbarberi, «la democrazia si deteriora, se non realizza i
propri ideali». Ma questi due grandi filoni di pensiero, il
socialismo e il liberalismo, hanno valori ancora validi per
questa rivoluzione permanente della nostra democrazia o
dobbiamo archiviarli e cercare altre fonti di ispirazione
ideale, per la verità ancora indeterminate e abbastanza
confuse? Che cosa è morto e che cosa è vivo in queste due
filosofie della storia? Sbarberi sintetizza la lezione
ancora fondamentale del liberalismo nella «difesa
appassionata dell’indipendenza individuale nei confronti di
qualunque forma di tirannia, perché ricordiamo che il potere
politico, se non è limitato per legge, tende sempre a
espandersi e, in taluni casi, a fondersi con altre forme di
potere. Ma la tirannia si può esercitare anche contro il
principio della libertà di coscienza, sfociando in forme di
paternalismo e di eticismo statale. Vorrei richiamare a
questo proposito, in un momento di forte polemica sul caso
Englaro, la stupenda frase di Stuart Mill nel Saggio sulla
libertà: ciascuno è l’autentico guardiano della propria
salute, sia fisica sia mentale e intellettuale». Anche nella
tradizione del socialismo Sbarberi individua un nucleo di
valori che non ha perso la sua attualità, soprattutto quando
dalla contrapposizione frontale tra liberali e socialisti si
è passati a convenire punti di importante convergenza sul
tema della libertà e dell’uguaglianza. «È quella strategia
dei diritti», osserva il professore, «fondata sul principio
che tutte le libertà possano essere solidali su forme di
economia mista e sull’idea che la democrazia
rappresentativa, per non trasformarsi in una macchina
separata dall’élite di governo, deve essere combinata
stabilmente con i movimenti e le deliberazioni provenienti
dal basso, a partire dai luoghi di lavoro».
Si può parlare, perciò, di un contributo della tradizione
socialista a una concezione più ricca della libertà che
resta ancora preziosa nella nostra società d’oggi, così a
rischio di separazione tra i cittadini e la classe politica?
«Sì», risponde Sbarberi, «come “potere di fare”, da parte
dei più deboli. Vorrei ricordare una frase di Bobbio, in
Politica e cultura, rispondendo a Togliatti: ”Se non
avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto
di vista degli oppressi, guadagnando una nuova, immensa
prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati, o
avremmo cercato riparo nell’isola dell’interiorità o ci
saremmo messi al servizio dei vecchi padroni». Per
conservare, oggi, la nostra democrazia, non basta tutelare i
principi costituzionali, a partire dalla separazione dei
poteri, ma occorre salvare quel nucleo di vitalità ideale
che unifica i due filoni, quello del liberalismo e del
socialismo. «Parlerei», conclude Sbarberi, «della ricerca
non fraudolenta della differenziazione individuale. Oggi si
parla tanto di meritocrazia, ed è giusto. Ma per premiare
effettivamente il merito, bisogna promuoverlo, tra tutti
coloro - si potrebbe dire con un gioco di parole - che se lo
meritano. E le relazioni di potere che impediscono il libero
sviluppo degli individui e, quindi, l’emergere del merito
sono essenzialmente tre: tra ricchi e poveri, tra sapienti e
ignoranti, tra politici e comuni cittadini».
Da La Stampa 5/3/2009
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