R/ESISTENZA  

SENZA UTOPIE CHE MONDO È
di Luigi La Spina

Dopo il crollo del socialismo, anche il liberalismo pare fallito. Ma la vita pubblica ha bisogno di ideali

Il duello prima era cominciato sui libri, ma, nel secolo scorso, si era trasferito sul grande palcoscenico del mondo, spaccandolo in due fronti ferocemente contrapposti. Aveva acceso grandi passioni, era costato tragedie immense. Poi, sembrava si fosse concluso con la piena vittoria dell’uno e con la disfatta teorica e pratica dell’altro. Ora, all’inizio del nuovo secolo, pare che lo stesso presunto vincitore debba arrendersi alla crudeltà di una storia che vorrebbe mettere pure lui in soffitta. Accanto al vecchio nemico, nel cimitero delle idee che non servono più. Davvero, dopo il socialismo anche il liberalismo, con la crisi economica mondiale che ha spento le illusioni sulle virtù autoregolatrici del mercato e sui vantaggi dello «Stato minimo» alla Robert Nozick, è fallito? Dobbiamo archiviare le due grandi utopie che, nel XX secolo, si sono sfidate nei sogni dei giovani di tutto il mondo e rassegnarci a vivere in una democrazia dove basta il rispetto delle regole costituzionali per esaurire le passioni politiche e civili dei cittadini? Così, non si riduce questa nostra democrazia a un meccanismo di procedure, senza un’anima, in un gioco freddo ed estraniante di poteri che usano il popolo come strumento di una lotta che sostanzialmente lo esclude dalle decisioni fondamentali? Si può partecipare alla vita pubblica, senza ideologie trascinanti e globali, senza valori che scuotono le coscienze e agitano, oltre che i pensieri, anche i sentimenti? «La democrazia», ricorda Franco Sbarberi, uno degli allievi di Norberto Bobbio che più ha studiato proprio i rapporti tra socialismo e liberalismo, recente curatore del volume La forza dei bisogni e le ragioni della libertà (Diabasis), «non dev’essere vista come un insieme di regole che servono a tutelare il gioco politico, come se non ci fossero valori dietro: soltanto un processo di democratizzazione permanente, quella “rivoluzione democratica continua” di cui parlava Tocqueville, evita il rischio di tornare indietro, di trovarci in quella abulia morale e politica oggi molto generalizzata, soprattutto tra i giovani».


«Così come non si nasce liberi, ma lo si diventa», aggiunge Sbarberi, «la democrazia si deteriora, se non realizza i propri ideali». Ma questi due grandi filoni di pensiero, il socialismo e il liberalismo, hanno valori ancora validi per questa rivoluzione permanente della nostra democrazia o dobbiamo archiviarli e cercare altre fonti di ispirazione ideale, per la verità ancora indeterminate e abbastanza confuse? Che cosa è morto e che cosa è vivo in queste due filosofie della storia? Sbarberi sintetizza la lezione ancora fondamentale del liberalismo nella «difesa appassionata dell’indipendenza individuale nei confronti di qualunque forma di tirannia, perché ricordiamo che il potere politico, se non è limitato per legge, tende sempre a espandersi e, in taluni casi, a fondersi con altre forme di potere. Ma la tirannia si può esercitare anche contro il principio della libertà di coscienza, sfociando in forme di paternalismo e di eticismo statale. Vorrei richiamare a questo proposito, in un momento di forte polemica sul caso Englaro, la stupenda frase di Stuart Mill nel Saggio sulla libertà: ciascuno è l’autentico guardiano della propria salute, sia fisica sia mentale e intellettuale». Anche nella tradizione del socialismo Sbarberi individua un nucleo di valori che non ha perso la sua attualità, soprattutto quando dalla contrapposizione frontale tra liberali e socialisti si è passati a convenire punti di importante convergenza sul tema della libertà e dell’uguaglianza. «È quella strategia dei diritti», osserva il professore, «fondata sul principio che tutte le libertà possano essere solidali su forme di economia mista e sull’idea che la democrazia rappresentativa, per non trasformarsi in una macchina separata dall’élite di governo, deve essere combinata stabilmente con i movimenti e le deliberazioni provenienti dal basso, a partire dai luoghi di lavoro».


Si può parlare, perciò, di un contributo della tradizione socialista a una concezione più ricca della libertà che resta ancora preziosa nella nostra società d’oggi, così a rischio di separazione tra i cittadini e la classe politica? «Sì», risponde Sbarberi, «come “potere di fare”, da parte dei più deboli. Vorrei ricordare una frase di Bobbio, in Politica e cultura, rispondendo a Togliatti: ”Se non avessimo imparato dal marxismo a vedere la storia dal punto di vista degli oppressi, guadagnando una nuova, immensa prospettiva sul mondo umano, non ci saremmo salvati, o avremmo cercato riparo nell’isola dell’interiorità o ci saremmo messi al servizio dei vecchi padroni». Per conservare, oggi, la nostra democrazia, non basta tutelare i principi costituzionali, a partire dalla separazione dei poteri, ma occorre salvare quel nucleo di vitalità ideale che unifica i due filoni, quello del liberalismo e del socialismo. «Parlerei», conclude Sbarberi, «della ricerca non fraudolenta della differenziazione individuale. Oggi si parla tanto di meritocrazia, ed è giusto. Ma per premiare effettivamente il merito, bisogna promuoverlo, tra tutti coloro - si potrebbe dire con un gioco di parole - che se lo meritano. E le relazioni di potere che impediscono il libero sviluppo degli individui e, quindi, l’emergere del merito sono essenzialmente tre: tra ricchi e poveri, tra sapienti e ignoranti, tra politici e comuni cittadini».



Da La Stampa 5/3/2009

 

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