Scrittori e
docenti intervengono sulle questioni aperte da Cesare
Segre
«Tutti parliamo allo stesso modo»
L'italiano perde efficacia e vivacità
Scurati: l'osceno ha sostituito il
tragico. Pincio: manca un progetto sul futuro
«Diciamo parolacce che non
offendono più, e «non siamo più capaci di senso
tragico». Riflessioni diverse,
quelle suscitate tra scrittori e linguisti
dall’articolo di Cesare Segre pubblicato ieri dal
«Corriere », sul degrado della lingua e la sua
volgarità. Segre ricordava il disuso dei registri
diversi, dall’alto al basso, dall’aulico al colloquiale,
nel linguaggio giovanile, e in quello televisivo, a
partire da una classe politica che «tende sempre più ad
abbassare il registro, perché pensa di conquistare più
facilmente il consenso»; per arrivare a chi dà del tu
agli immigrati e a chi fa del turpiloquio
«indifferenziato » un’abitudine. Commenta il professor
Pietro Trifone, ordinario di linguistica all’Università
di Tor Vergata: «Ha ragione Segre quando dice che è
importante l’appropriatezza d’uso di registri diversi.
Anche i registri bassi possono essere utilizzati in
certi ambiti: per esempio, se nel corso di una lezione
io dico "vi state abbioccando" invece che
"addormentando", lo faccio perché proprio il cambio di
registro può essere efficace. Il fatto che la nostra
lingua degradi è spiegabile: si tratta di un patrimonio
comune, ma il confronto con il passato ci dice che c’è
stato un progresso rispetto a 30-40 anni fa, quando
usavamo molto di più il dialetto, o rispetto al periodo
postunitario, quando era circa il 10 per cento della
popolazione a usare l’italiano; mentre ora che tutti lo
parlano (fondandosi peraltro sul modello televisivo)
qualche colpo all’eleganza è spiegabile.
D’accordo anche sul fatto che il
turpiloquio, diffondendosi ovunque, toglie vivacità alla
lingua e perde efficacia. Anche Dante ha scritto
parolacce, ha chiamato l’Italia "bordello", ma è stato
il primo a usare questa parola. Pesava». «Non butterei
tutta la responsabilità sui giovani—precisa Silvia
Ballestra—perché il turpiloquio non è più appannaggio
dei giovani. Però è vero: la parolaccia è brutta da
sentire ma se diventa un intercalare comune si
depotenzia. E quando poi vogliamo usare una parolaccia
vera, che facciamo? È una zona di eversione del
linguaggio che dovrebbe continuare a esistere — mentre i
giovanilismi sono come i brufoli, poi passano: la lingua
è in movimento, è un organismo vivo che si evolve». Si
evolve, anche nel dialetto, sostiene Vitaliano Trevisan:
«Per quanto riguarda il dialetto: è vero che nel
registro alto perde qualcosa»—Segre ricordava che «i
dialettalismi, che insaporiscono la lingua, sono
inopportuni ai livelli alti» — «mentre se è vivo, come
dalle mie parti, è molto vivo in basso, e ha intatte le
sue caratteristiche di inventiva. Anche sul
contemporaneo, che è in grado di tradurre per immagini
in modo efficace. Sono d’accordo con Segre su un’altra
questione: negli uffici pubblici, per la strada, tra la
gente comune, c’è questo dare del tu agli immigrati, che
è molto fastidioso, non mi piace». Su questo, Ballestra
aggiunge: «Segre ha scelto un esempio particolare,
perché la parola "vu cumprà" è proprio brutta. E il lei
al posto del tu è difficile sia da usare sia da capire.
Ci sono lingue, come l’inglese e lo svedese, dove la
seconda persona plurale assolve questa funzione ». A
proposito del tu, Tommaso Pincio fa notare un altro tu
indifferenziato: «In tv i politici sono soliti darsi del
tu, poco il lei e solo per sottolineare la volontà di
non scendere a patti, non per rispetto ma per disprezzo,
con effetti devastanti ».
E racconta un episodio:
«Partecipavo a una trasmissione letteraria a l l a
radio, Fahrenheit, in cui ci si dà del lei per statuto,
proprio per senso di rispetto. A un certo punto
l’intervistatrice mi ha dato inavvertitamente del tu.
Subito gli ascoltatori hanno mandato Sms che dicevano
"non perdete le buona consuetudine di darvi del lei"».
Un elemento, l’attenzione alla lingua, ai registri, che
Trifone sottolinea: «La forte sensibilità intorno a
questi temi è un bel sintomo, è sensibilità per un
valore importante, la lingua italiana». E suggerisce su
quali aspetti puntare: «Sulla scuola. Che è però anche
la grande accusata (così poi diventa sempre più povera,
riceve sempre meno finanziamenti). Ma è qui che si può
avere un contatto con i livelli alti della lingua. Poi
l’università. E i media: i giornali e la televisione,
perché non è possibile ridurre tutto a rissa, a slogan.
Su Internet direi che ci sono blog vivaci e molto ricchi
linguisticamente, altri di segno opposto». Giulio Mozzi
obietta invece: «Se Segre dice che c’è un’evoluzione
nella lingua italiana, avrà certo le basi scientifiche
per dirlo. Ma decidere che questa evoluzione è
inopportuna, questa è un’opinione». Mentre secondo
Antonio Scurati «una sorta di compulsione bassomimetica
è la manifestazione più evidente del clima di basso
impero in cui viviamo».
E continua: «Quella che al tempo
di Pasolini era una scelta stilistica tra le altre, ora
è una sorta di impossibilità di scelta, un unico
orizzonte angusto. Anche in campo letterario, dove la
lingua dovrebbe esprimersi al suo massimo, e dove invece
abbiamo il predominio di una mimesi coatta del parlato.
I registri alti sono sempre più penalizzati anche da una
certa ricezione critica». Rincara la dose Pincio: «Il
problema non è della lingua, è altrove. Un impoverimento
etico e morale, di un Paese che non progetta più il
proprio futuro, e che va subito al "sodo", nel senso del
prevalere della quantità sulla qualità, del "sodo" a
scapito della forma, che considera una scocciatura.
Invece il rituale è anche una forma di rispetto ». «In
questa restrizione — afferma Scurati — c’è una perdita
secca di interi campi di possibilità umane. Non siamo
più capaci di tragico, impedito dallo scomparire dei
registri alti, sostituito dall’osceno, suo esatto
opposto. L’umano si restringe, le nostre risate ci
seppelliscono continuamente».
Corriere della Sera
Cultura