Il merito e l'uguaglianza
Nadia Urbinati |
"Meritocrazia" è la parola magica
che pare ai più capaci di liberare la società italiana
dalle sue croniche aberrazioni. Se il merito venisse
davvero riconosciuto, si dice, la nostra società si
emanciperebbe dai lacci del nepotismo e del
clientelismo.
Come recita il sottotitolo del libro di Roger Abravanel
sulla meritocrazia, questa è la ricetta per valorizzare
il talento e rendere il paese più ricco e più giusto.
Wikipedia definisce la meritocrazia come un sistema di
governo o un´organizzazione dell´azione collettiva
basato "sull´abilità dimostrata" e sul "talento"
piuttosto che su "ricchezza ereditata, relazioni
familiari e clientelari, nepotismo, privilegi di classe,
proprietà o altri determinanti storici di potere
politico e posizione sociale". John Rawls avrebbe
sottoscritto questa definizione.
Tuttavia resta difficile da spiegare con precisione che
cosa sia vero merito, prima di tutto perché è
impossibile stabilire con rigore e certezza il dosaggio
tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche
volta sembra di capire che il merito sia una qualità che
la persona riconosciuta meritevole possieda naturaliter
come per innata disposizione (talenti) e che con fatica
e duro lavoro riesce poi a fare emergere
(responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi
abbastanza sulla dimensione sociale del merito, sul suo
dipendere profondamente dal riconoscimento sociale
ovvero dalla sintonia che si stabilisce tra chi opera e
chi riceve i frutti o è influenzato dall´operato.
Il giudizio rispetto al merito di una persona è
relativo a un settore di lavoro, a determinati requisiti
che definiscono una prestazione, all´utilità sociale
delle funzioni in un determinato tempo storico, ovvero
al riconoscimento pubblico. Nel merito entrano in giuoco
non soltanto le qualità intrinseche e morali della
persona, ma anche quella che per Adam Smith era una
simpatetica corrispondenza tra i partner sociali. Per
questo i teorici moderni della giustizia hanno sempre
diffidato di questo criterio se usato per distribuire
risorse. Non perché non pensano che ad essere assunto in
un ospedale debba essere un bravo medico, ma perché
mettono in guardia dallo scambiare l´effetto con la
causa: è l´eguaglianza di trattamento e di opportunità
il principio che deve governare la giustizia non il
merito, il quale semmai è una conseguenza di un ordine
sociale giusto.
Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve
sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe
essere concessa un´eguale possibilità di formarsi
capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e
diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla
gara della vita.
Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson
raccontò questa storia per far comprendere quanto
necessari fossero i programmi pubblici di giustizia
sociale: immaginiamo una gara di velocità tra due
persone che partono dallo stesso punto, ma una delle
quali parte con dei lacci alle caviglie. Si può ignorare
questa differenza di capacità nel giudicare del merito
del vincitore? Evidentemente no .
Perché ci sia una gara effettivamente gareggiata
occorre rimuovere gli ostacoli dell´altro competitore.
Ecco perché a meno che non si azzerino le relazioni
sociali e non si rifondi daccapo la società civile non
si può onestamente parlare del merito come della
soluzione ai problemi dell´ingiustizia senza
preoccuparsi di vedere con quali mezzi i concorrenti si
apprestano a competere.
Parlare di merito senza intaccare i residui storici e
naturali che condizionano le prestazioni individuali è a
dir poco capzioso.
Nella condizione in cui la nostra società si trova
attualmente è davvero difficile che il riconoscimento
del merito sia un fattore di imparzialità o giustizia.
Ne parlava su questo giornale alcune settimane fa
Adriano Sofri. L´appartenenza di classe, sempre più
determinante nell´accesso a buone scuole e quindi a una
buona occupazione (a un lavoro che piace non
semplicemente a un lavoro necessario) rende il discorso
sulla meritocrazia non proprio cristallino e la gara una
gara chiusa, avvantaggiata già alla partenza o truccata.
Perché questo lungo discorso sul merito? Perché in
questi giorni di sacrosanta denuncia delle aberrazioni
che si annidano in molte università italiane potrebbe
venir spontaneo pensare che l´unica soluzione per curare
il malato di corruzione sia sottoporlo al salasso delle
risorse. Per curare una università che non seleziona per
merito occorre togliere i finanziamenti: questo è quanto
da più parti si dice con più frequenza, portando acqua
al mulino governativo in maniera più o meno diretta.
Nell´età premoderna si pensava che il modo migliore per
guarire un malato fosse quello di salassarlo per
togliergli il sangue cattivo e si finiva per far morire
il malcapitato proprio con l´intento di salvarlo.
Il corpo non rinvigorisce togliendogli il cibo, ma
dandogli cibo buono. Non si tratta di una terapia
veloce, ma è l´unica terapia ragionevole. Non esiste una
giustizia rapida, come i sognatori della meritocrazia
sembrano credere. E quindi non è tagliando i
finanziamenti che si può pensare di risanare
l´università, il luogo dove i talenti cercano alimento.
Anche perché la politica dei "meno soldi" non si traduce
necessariamente in "più onestà". Occorre invece far sì
che i soldi siano meglio spesi e che siano messi in atto
sistemi di controllo che controllino davvero (con anche
l´uso del codice penale se necessario) e sistemi di
reclutamento efficaci e non corrotti.
Ma non ci si faccia illusioni sulla celerità della
cura. Perché è evidente che la questione del merito non
è né neutra né di semplice procedura. Essa è prima di
tutto una questione di etica di chi valuta e di chi è
valutato, dei sistemi di valutazione e, in primo luogo,
di chi li escogita e chi li fa funzionare.
Non basta enunciare che occorre seguire il criterio del
merito (e quale altro se no?), occorre davvero seguirlo
sempre. Per esperienza devo dire che spesso anche chi
esalta il merito non è poi sempre pronto a onorarlo
perché la logica del sistema ha più forza di quella del
merito e dell´onestà. Non è questa la ragione per la
quale è così difficile che un esterno vinca una
competizione nell´accademia italiana? Se la questione
del merito è una questione di eguali opportunità e di
etica pubblica o di responsabilità, allora, per
sconfortante che la cosa possa apparire, non consente
soluzioni veloci e facili.
Anche se è comprensibile che di fronte alla notizia
scandalistica (ma per nulla nuova) di cattedre destinate
a parenti e amanti (o ad allievi fedeli, una categoria
altrettanto aberrante, eppure molto in uso) e ai
finanziamenti statali elargiti a università private di
ogni tipo e luogo (uno sperpero del denaro pubblico di
cui si parla troppo poco), viene sacrosanta la reazione
di volere azzerare tutto togliendo le risorse. Ma si può
voler creare indigenza per sconfiggere il furto?
La Repubblica 27 novembre 2008