"La morte della persona
coincide con la morte di un organo preciso, il cervello. Quando
non c'è più attività cerebrale, non c'è più nulla di quello che
caratterizza la nostra vita umana: non c'è più pensiero, né
memoria, né emozioni».
Così il professore Umberto Veronesi risponde all’Osservatore
Romano. E sul testamento biologico, Veronesi oggi senatore del
Pd e ministro ombra alla Sanità, spiega che serve per ridare
dignità alla morte.
Il Pd che si divide sul testamento biologico, il Vaticano che
prende le distanze dall’Osservatore Romano sulla morte
cerebrale, la Regione Lombardia che contesta la decisione dei
giudici sul caso Englaro: benvenuti nel caos. O forse benvenuti
in Italia. Perché negli stessi giorni in cui la Spagna, in
Andalusia, si prepara a varare una legge per "il diritto a una
morte dignitosa" (come fanno da tempo Francia, Inghilterra,
Danimarca, Germania, Stati Uniti, Canada) da noi si litiga senza
decidere nulla.
Davvero in Italia è così difficile affrontare i temi che
riguardano la vita e la morte? Davvero è così complesso
discutere di leggi che, più di altre, toccano la coscienza di
ogni singolo cittadino?
Umberto Veronesi, ex ministro della Sanità, oncologo e oggi
senatore del Pd, non ha dubbi: "E’ quello che accade quando si
mischiano i ruoli, quando si confonde il campo della bioetica
con quello della scienza. Quando chi parla non sa e chi sa non
può parlare. E questo avviene perché non esiste una legge che
dica, chiaramente, quali sono le regole".
Il caso dell’Osservatore Romano è esemplare: con un articolo
pubblicato martedì scorso la storica Lucetta Scaraffia,
vicepresidente dell’associazione Scienza e Vita e componente del
Comitato Nazionale di Bioetica, sostiene che la dichiarazione di
morte cerebrale non è più sufficiente per affermare che la vita
è finita. Un’affermazione impegnativa, in aperto contrasto con i
criteri alla base della medicina dei trapianti.
«Il punto è che la bioetica dovrebbe disinteressarsi delle
minuziose definizioni degli eventi che la scienza porta con sé.
Definire quale sia il vero momento della morte è molto
difficile. Un tempo si diceva che un cuore che batte era segno
di vita. Da quarant’anni sappiamo che non è così. Se prendo un
cuore umano e lo metto in coltura, cioè in condizioni adeguate,
continua a battere anche al di fuori del paziente. Lo stesso per
un rene: se lo collego a una macchina continua a filtrare
sostanze tossiche e a produrre urina. Agli organi non interessa
da dove arriva il sangue, se dalle vene del paziente o da una
pompa artificiale: basta che continuino a ricevere ossigeno,
acqua, sali minerali. Da un punto di vista biologico questi
organi sono vivi, ma questo significa che la persona che li ha
donati è ancora viva? Direi proprio di no. La morte della
persona coincide con la morte di un organo preciso, il cervello.
Quando non c’è più attività cerebrale, non c’è più nulla di
quello che caratterizza la nostra vita umana: non c’è più
pensiero, né memoria, né emozioni. Questo non l’ho stabilito io,
ma il famoso Protocollo di Harvard».
Una delle obiezioni a questa impostazione è che esistono casi
di risveglio da situazioni di coma.
«Anche qui regna la confusione. Il punto chiave è il concetto di
irreversibilità. E questo spetta alla neurologia non alla
bioetica. Sono i neurologi che devono dire se una persona in
coma si trova in una situazione transitoria, dalla quale potrà
riprendersi, oppure se ha imboccato una strada senza uscita.
Esistono definizioni standard condivise da tutti i medici: un
paziente può riprenderdsi bene da un coma se si risveglia nel
giro di 15 giorni, il risveglio diventa invece raro quando
passano da un mese ad un anno e quasi impossibile oltre un anno.
Nel secondo caso si parla di stato vegetativo persistente, nel
terzo di vegetativo permanente. Sono i neurologi, che in base
alle loro conoscenze devono riconoscere le differenze tra il
secondo e il terzo caso, capire cioè se siamo in una situazione
permanente e irreversibile».
Come il caso Englaro?
«Certamente. Perché se è quasi impossibile il risveglio dopo uno
o due anni, figuriamoci dopo 16 come la povera Eluana. Una
vicenda drammatica che ha mostrato l’importanza di una legge che
non c’è: un vuoto che tutti vedono e tutti denunciano ma che va
colmato nel modo giusto. A fine luglio, prima che chiudessero le
Camere, ho presentato un progetto di legge sul testamento
biologico molto semplice ma molto chiaro in cui si permette a
una persona, come diceva Luca Goldoni, di "decidere, quando c’è
ancora la luce, di andare via quando la luce non ci sarà più".
La mia proposta, che si aggiunge a quella già presentata da
Ignazio Marino, va proprio in quel senso.
E funziona così: una persona consegna un testamento a una
persona di fiducia, un familiare o un amico intimo. Il quale è
il tutore della volontà di quella persona: se a questa accade
qualcosa, è il fiduciario che va dal medico a difendere, con la
forza del documento firmato, le volontà del paziente che si
trova in uno stato vegetativo permanente. Questa volontà
riguarda anche l’interruzione dell’alimentazione e l’idratazione
artificiale e prevede anche l’obiezione di coscienza da parte
dei medici. I quali, tuttavia, sono tenuti a trasferire il caso
a un collega».
Con questo testamento il caso Englaro non sarebbe nato.
«Sì, perché la mia proposta precisa che, se il paziente non
vuole essere tenuto in stato di vegetazione permanente bisogna
interrompere ogni intervento esterno, non solo le terapie, ma
anche l’alimentazione e l’idratazione».
Proprio quello che la Regione Lombardia ha detto di non voler
fare.
«E quello che avviene quando non c’è una legge: ciascuno fa come
vuole. Con il paradosso che se i genitori di Eluana andassero in
Germania o in Svizzera il problema non si porrebbe».
Emigrare per morire...
«È assurdo. Eppure dico che piuttosto che avere una cattiva
legge, che impedisce di affrontare e risolvere i problemi, è
meglio continuare come adesso. Piuttosto che avere una legge che
ingabbia e imbriglia, come la legge 40 per la fecondazione
assistita, è meglio lasciare le cose come stanno».
Una delle critiche mosse dal mondo cattolico è che il
testamento biologico potrebbe aprire le porte all’eutanasia.
«Sono due argomenti totalmente differenti. Il testamento
biologico riguarda una persona che non è in più grado di
esprimere le sue volontà. L’eutanasia è l’opposto: riguarda il
malato terminale che, in condizioni irreversibili di guarigione
e destinato a morire in breve tempo, chiede di essere sollevato
dalla sofferenza. È quello che avviene in Olanda dove è stata
definita una legge che autorizza, in casi precisi di malattia
terminale, di ricorrere all’eutanasia.
Ogni anno in Olanda ci sono 10.000 malati terminali che chiedono
di poter interrompere la propria vita. Di queste richieste ne
vengono accolte 2-3000 l’anno: le altre vengono rifiutate perché
non esistono le condizioni (il paziente non era terminale o la
sua volontà era influenzata da uno stato depressivo) o perché
nel frattempo il paziente è deceduto. Questo è quello che
avviene in Olanda, dove il tema dell’eutanasia è stato accettato
dall’opinione pubblica».
Una volta lei disse che negli ospedali italiani l’eutanasia
si fa ma non si dice.
«Non lo dico io, lo dicono gli esperti di terapie palliative,
sostenendo che c’è un tacito accordo per affrontare i casi più
disperati di sofferenza. E di solito la soluzione è quella del
"Paziente inglese", come in quel film dove un malato gravissimo,
non potendo nemmeno più parlare, fa un cenno all’infermiera di
aumentare la dose di morfina. E’ quello che si chiama il "doppio
effetto", cioè l’uso di farmaci analgesici a dosi sempre
maggiori: il primo effetto è togliere il dolore, il secondo
quello di accelerare la fine».
In questo modo però il peso della scelta è tutto sulle spalle
del medico. Non sarebbe meglio una legge come in Olanda?
«Non lo so e a dirla tutta non mi interessa. Un po’ perché
l’Italia non è preparata a un passo del genere. E un po’ perché
mi trovo d’accordo con Montanelli che si diceva a favore
dell’eutanasia ma non ne voleva parlare perché "questa
burocrazia della morte mi dà un po’ fastidio". Diciamo che non
sono favorevole all’eutanasia, ma sono favorevole a discuterne.
La morte è un evento altrettanto importante e necessario della
nascita. Anzi, è un dovere. L’organismo nasce e deve morire per
far spazio alle nuove generazioni.
Dobbiamo affrontarla con serenità, la morte. Io dico sempre che
vorrei godermi la mia morte perché è un atto di cui sono
consapevole e che accetto: ho tanti figli, ho tanti nipoti e
capisco che devo mettermi da parte e lasciare spazio agli altri.
Questa è la consapevolezza che permette di discuterne
liberamente.
Se invece la morte viene vista come la massima punizione, come
"il peggiore di tutti i mali", allora si finisce per rimuovere
il problema senza mai affrontarlo. Ma si commette un errore:
perché in questo modo si perde un aspetto importante della
propria esistenza. E si rischia, come diceva Evtuschenco, di
"morire prima di morire"».
da L'Unità 5 settembre 2008