Si
leggono sempre meno i classici nelle nostre scuole, nelle nostre case, e
così la nostra anima più non conosce le parole per nominare l'amore, per
quel tanto che ha di enigmatico e buio, il dolore nelle sue espressioni
che vanno dalla malinconia al mondo chiuso e opprimente dell'angoscia,
la gioia nelle vertigini della sua esaltazione, la noia nel suo spessore
denso e opaco. Cosa comporta questa afasia? Che i sentimenti
attraversano l'anima senza che noi si possa dialogare con loro. Pure
sensazioni che ci afferrano, dilatando o comprimendo la nostra vita,
senza lasciare una traccia, un'indicazione per costruire una geografia
del nostro cuore, in cui potersi riconoscere senza doverci temere. Eh
sì, perché fa paura quando ciò che si prova è senza nome e il suo
percorso è imperscrutabile. I classici, che sono tali perché hanno
saputo cogliere le metafore di base dell'umano, ci insegnano i nomi con
cui noi possiamo chiamare e richiamare i nostri sentimenti, dialogare
con loro, attutire la loro violenza, assecondare la loro dolcezza,
accudire la loro incertezza, ribaltarli persino, per scoprire quanto
odio c'è sotto il nostro amore, quanta aggressività sotto la nostra
cortesia, quanto disprezzo nasconde la nostra lode, quanto ignobile
vizio sottende la nostra ostinata virtù. Perché i meandri del cuore sono
inaccessibili alla linearità con cui la nostra ragione articola e separa
il bene dal male, il vero dal falso, il giusto dall'ingiusto, perché
tutto ciò che la ragione distingue il cuore lo fonde e lo con-fonde, per
cui il vocabolario della ragione a nulla serve per orientarci nei
percorsi segreti e nascosti del cuore. Il trionfo della razionalità,
nell'età della tecnica, distribuisce nomi precisi dal significato
univoco e non confondibile. Anzi ai nomi, che ancora portano con sé
troppa approssimazione, tende a preferire i numeri, soprattutto i numeri
primi con cui si costruiscono i programmi dei nostri computer. Per
questo linguaggio, oggi egemone, la domanda di Leopardi: "Dimmi che fai
tu Luna in ciel?"è pura insensatezza. Eppure sarà capitato a tutti noi,
in una notte ancora lontana dalla luce dell'alba, chiedere alla luna se
non proprio che cosa ci fa in cielo, cosa ci facciamo noi sulla Terra. E
per questo genere di domande non c'è linguaggio della ragione che sia
all'altezza. Qui bisogna scendere nel linguaggio del cuore. Ma come
facciamo se non sappiamo nulla dell'Inferno e del Paradiso perché
conosciamo Dante solo perché ci sono delle vie a lui dedicate? Come
possiamo reggere il dolore e capire che la malattia è l'ultimo effetto
della mancanza d'amore se non siamo mai salitial sanatorio che Thomas
Mann descrive ne La montagna incantata?
Come gettare un'occhiata e scoprire qualcosa che passa sotto la soglia
della nostra coscienza se non abbiamo mai incontrato Dostoevskij quando,
spietatamente e senza infingimenti, scrive le sue Memorie dal
sottosuolo. Che ne sappiamo della "nausea" se Sartre è sparito dalle
nostre librerie perché nessuno più lo legge? Che ne sappiamo dello
"straniero" e come facciamo a discutere di immigrati, di integrazione e
di espulsione se mai abbiamo sperimentato la condizione di straniero e
neppure ci siamo fatti aiutare da uno dei capolavori di Camus? Davvero
possiamo capire qualcosa della miseria senza aver letto I Miserabili di
Victor Hugo? Oppure qualcosa della guerra e della pace, per quel tanto
di indistinto e indiscernibile queste due parole, apparentemente
opposte, significano, se non abbiamo aperto neppure una pagina del
capolavoro di Lev Tolstoj?
Fin qui i classici della letteratura che ci fanno conoscere quel che
passa nella nostra anima, semmai la cosa ancora ci riguarda e ancora non
siamo giunti a temere noi stessi più di qualsiasi altra cosa. Accanto a
loro ci sono i classici della filosofia, utilissimi per correggere le
nostre idee. Infatti, oltre ai disagi determinati dalle contorsioni
della nostra anima, ci sono i disagi determinati dalla confusione delle
idee che condizionano la nostra esistenza, costringendola in una
coazione dove le è dato solo di ripetere se stessa senza vie di scampo.
Ci sono infatti idee malate che ci fanno smarrire la giusta misura, come
le idee del potere, del successo, dell'apparire, altre che affliggono
l'anima come l'idea di colpevolezza, di peccato, a retaggio di una
cultura religiosa mal intesa. Ci sono poi idee sconosciute come quelle
di "tolleranza" su cui Locke ha fatto fondamentali riflessioni, o di
"rispetto" a cui Kant ha dedicato pagine elevate. Perché non conoscere
poi la differenza che corre tra la giustizia e quel suo correttivo che è
l'equità come Aristotele ce la illustra, o le profonde riflessioni
sull'amore come Platone ce le espone nel Simposio. E sulla verità e
sulla fede, oggi in rotta di collisione, perché non leggere le pagine di
Jaspers che ci fa capire come una dimensione non sia compatibile con
l'altra? Si obietta che la filosofia è difficile. Non è vero. E in ogni
caso sempre meno difficile della difficoltà e della resistenza che tutti
noi, chi più chi meno, opponiamo alla correzione delle nostre idee, al
loro cambiamento, da cui, in una misura che neppure sospettiamo, dipende
il cambiamento della nostra vita, la sua capacità di rinnovarsi e di non
appiattirsi nella monotonia della ripetizione o affogare nelle
semplificazioni dell'ignoranza che sembra non abbia mai dato strumenti
particolarmente idonei per vivere. Il giorno in cui i classici
diverranno archeologia, reperti buoni per i musei, seppelliti, quando
ancora si dovessero trovare nelle librerie, sotto le montagne di copie
dell'ultimo best-seller (espressione questa che serve a segnalare quali
sono i peggiori libri in circolazione), allora l'umanità sarà giunta
all'ultimo scalino del suo degrado, e quei pochi individui che ancora
leggono quei libri dalle copertine colorate con i titoli in rilievo, ben
poco si distingueranno dai loro simili che non leggono e di cui c'è solo
da augurarsi che non aprano mai la bocca né in pubblico per non
mostrare, insipienti, il vuoto della loro mente, né nell'intimità per
non far trasparire, quando non una disarmante banalità, l'afasia del
loro cuore insipido, incapace di dar tono, senso ed emozione persino
alle movenze standard del loro corpo.
dal quotidiano Repubblica |