Scrivere, in questi anni, mi ha dato la possibilità di esistere e se
qualcuno ha sperato che vivere in una situazione difficilissima
potesse indurmi a nascondere le mie parole, ha sbagliato. Ho scritto
in una decina di case diverse. Tutte piccolissime e buie. Le avrei
volute più spaziose, luminose, ma nessuno me le fittava.
Non potevo girare per cercarle e nemmeno decidere da solo dove
abitare. E se diventava noto che io stavo in quella via ero subito
costretto a traslocare. E' la situazione di molti che vivono nelle
mie condizioni. Ti presenti a vedere l'appartamento che con fatica i
carabinieri hanno selezionato, ma appena il proprietario ti
riconosce, la risposta è sempre la stessa: "La stimo moltissimo,
dottore, ma ho già molti problemi. Capisce, qui la gente ha paura".
Però accanto a questa paura, copertura vile per non voler essere
ascritti a una parte - alla mia - , ci sono stati anche i gesti di
molti che non conoscevo, che mi hanno offerto un rifugio, una
stanza, amicizia, calore. E anche se spesso non ho potuto accettare
le loro proposte, ho scritto pure in quei luoghi ospitali e colmi di
affetto.
Molte delle pagine riunite in questo libro non le ho nemmeno scritte
in una casa, ma in camere d'albergo. Buie, senza finestre da poter
aprire, senza aria. All'estero è capitato anche che non vedessi
nient'altro che quelle camere e il profilo della città dietro i
vetri oscurati di una macchina blindata. Non si fidavano a lasciarmi
uscire e spesso non si fidano nemmeno a lasciarmi nello stesso
albergo per più di una notte. Più la criminalità e le mafie sembrano
lontane, più ti trattano come qualcosa che potrebbe esplodergli
sotto gli occhi. Con dei guanti che non sai se sono da cerimonia o
da artificieri. E tu non capisci se sei più un pacchetto regalo o un
pacco-bomba.
Più spesso ancora ho scritto in caserma. Nel ventre quasi vuoto e
immobile di una grande, vecchia balena fatta per operare. Mentre
fuori intuisci movimento, c'è il sole, è già estate. Sai che se
potessi uscire, in due minuti passeresti davanti alla tua vecchia
casa, la prima dove ti dissero "Finalmente te ne stai andando!", e
in altri cinque saresti al mare. Ma non puoi farlo.
Però puoi scrivere. Devi e vuoi continuare. Il cinismo che
contraddistingue molta parte degli addetti ai lavori lascia
intravedere sempre una sorta di diffidenza per tutto quello che non
ha uno scopo preciso. O il distacco di chi vuole solo fare un buon
libro, limare le parole sino a ottenere uno stile bello e
riconoscibile. E' questo ciò che deve fare uno scrittore? Questa è
letteratura? Allora, per quanto mi riguarda, preferirei non
scrivere.
Il bisogno di distruggere tutto ciò che possa essere desiderio e
voglia: questo è il cinismo. E' l'armatura dei disperati che non
sanno di esserlo. Che vedono tutto come una manovra furba per
arricchirsi, la pretesa di cambiare come un'ingenuità da apprendisti
stregoni e la scrittura che vuole arrivare a molti come una forma di
impostura da piazzisti. Nulla può essere tolto a questi signori
diffidenti e perennemente con il ghigno di chi sa già che tutto
finirà male, perché non hanno più nulla per cui valga la pena di
lottare. Ma nel privilegio delle loro vite disilluse e protette, non
hanno idea di che cosa possa veramente voler dire scrivere.
Scrivere è il contrario di tutto questo. E' riuscire a iscrivere una
parola nel mondo, passarla a qualcuno come un biglietto con
un'informazione clandestina, uno di quelli che devi leggere, mandare
a memoria e poi distruggere: appallottolandolo, mischiandolo con la
tua saliva, facendolo macerare nel tuo stomaco. Scrivere è fare
resistenza.
La mia vicenda di questi anni mi ha permesso di incontrare molte
persone che non potrò mai dimenticare. Mi ha dato la possibilità di
trovarmi con Enzo Biagi, di capire che quell'uomo anziano aveva
ancora tanta voglia di interrogarsi e di capire il mondo.
E poi Miriam Makeba, la grande "Mama Africa", la voce che cantava la
libertà di un continente e invece è morta a Castel Volturno, dopo un
concerto per ricordare sei fratelli uccisi dalla camorra e per
esprimere la sua vicinanza a me, che non aveva mai incontrato,
bersaglio di un nemico di cui lei non conosceva nemmeno il nome.
Nello stadio del Barcellona ero scortato dai Mossos, i corpi
speciali della polizia catalana che volevano portarmi a vedere la
partita circondato da un cubo di vetro antiproiettile e che poi,
mossi a compassione, mi hanno risparmiato quel nuovo tipo grottesco
di prigione. Lì ho incontrato Lionel Messi, l'attaccante argentino
del Barça, che è riuscito a rifare, identico, il gol più bello di
Diego Armando Maradona. Faccia da bimbo che non dice nulla delle
sofferenze che ha patito, delle cure dolorose che gli hanno permesso
di crescere e divenire il più grande giocatore dei nostri giorni.
A volte però mi trovo a guardare indietro. E allora so a chi questo
libro non è destinato. Non va a tutte quelle persone con cui sono
cresciuto, che si sono accontentate di galleggiare, di tirare a
campare in giorni tutti uguali. Non va ai rassegnati, fermi a
scambiarsi le fidanzate, scegliendo tra chi è rimasto spaiato come
le scarpe dentro scatole impolverate. A chi crede che per diventare
adulti bisogna caricarsi in groppa i fallimenti di un altro,
piuttosto che rilanciarsi insieme in una sfida. Io non scrivo
mandando lettere verso un passato che non posso né voglio più
raggiungere. Perché se guardo indietro so che rischio di finire come
la moglie di Lot, trasformata in statua di sale mentre guardava la
distruzione delle città di Sodoma e Gomorra. E' questo quel che fa
il dolore quando non ha nessuno sbocco: ti pietrifica. Come se i
tuoi pianti, a contatto col tuo rancore, si rapprendessero in tanti
cristalli divenendo una trappola mortale. Allora, quando mi guardo
indietro, l'unica cosa in cui mi riconosco sono le mie parole.
Questo libro va a chi ha reso possibile che Gomorra
divenisse un testo pericoloso per certi poteri che hanno bisogno di
silenzio e ombra. A chi ha assimilato le sue parole, a chi si è
ritrovato nelle piazze per leggerne delle pagine, testimoniando che
la mia vicenda e le mie parole erano diventate di tutti. Senza di
loro non ce l'avrei fatta a continuare a esistere pensando a un
futuro. Sapendo che la mia vita blindata era comunque una vita.
Senza i miei lettori non avrei mai avuto le prime pagine dei
giornali, le telecamere in prima serata. Devo a loro se ho compreso
l'importanza del confronto con i media. Quando dietro non ci sono il
vuoto, la trama di finzioni che non fanno altro che distrarre e
consolare, ma ci sono la voglia e il desiderio di tanti di sapere e
di cambiare, perché non possono essere usati tutti i mezzi di
comunicazione possibili per unificare le forze? Perché averne tanto
sospetto o paura?
Paura. In tutte le interviste, in tutti i Paesi dove il mio libro è
stato pubblicato, mi chiedono sempre se io non abbia paura che mi
possano ammazzare. "No" rispondo subito, e lì mi fermo. Poi mi
capita di pensare che chissà quanti non mi crederanno. Invece è
così. Perché la peggiore delle mie paure, quella che mi assilla di
continuo, è che riescano a diffamarmi, a distruggere la mia
credibilità, a infangare ciò per cui mi sono speso e ho pagato. Lo
hanno fatto con chiunque abbia raccontato e denunciato.
C'è una frase di Truman Capote, vera e terribile: "Si versano più
lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte". Se ho
avuto un sogno, è stato quello di dimostrare che la parola
letteraria può ancora avere il potere di cambiare la realtà. La mia
"preghiera", grazie ai miei lettori, è stata esaudita, ma sono anche
divenuto altro da quel che avevo immaginato. E questo è stato
difficile da accettare, finché non ho capito che nessuno sceglie il
suo destino. Però può sempre scegliere la maniera in cui starci
dentro. E per quanto mi riesca, voglio provare a fare il mio lavoro
nel migliore dei modi, senza sconti e semplificazioni, perché è
questo ciò che sento di dovere a tutti coloro che mi hanno
sostenuto.
Il titolo di questo libro vuole ricordare che da un lato esistono la
libertà e la bellezza necessarie per chi scrive e per chi vive,
dall'altro esiste la loro negazione: l'inferno che sembra
continuamente prevalere. Ad Albert Camus appartiene una piccola
frase apparentemente senza peso. Per me, invece, ne ha molto perché
mi ricorda quanto Giovanni Falcone diceva a proposito della mafia e
del suo essere un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani
delimitato da un inizio e da una fine. Ecco allora quel che scrisse
Camus: "L'inferno ha un tempo solo, la vita un giorno ricomincia".
E' quello che credo, spero, voglio e desidero anch'io.
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