I CLASSICI

Umberto Galimberti

Si leggono sempre meno i classici nelle nostre scuole, nelle nostre case, e così la nostra anima più non conosce le parole per nominare l'amore, per quel tanto che ha di enigmatico e buio, il dolore nelle sue espressioni che vanno dalla malinconia al mondo chiuso e opprimente dell'angoscia, la gioia nelle vertigini della sua esaltazione, la noia nel suo spessore denso e opaco. Cosa comporta questa afasia? Che i sentimenti attraversano l'anima senza che noi si possa dialogare con loro. Pure sensazioni che ci afferrano, dilatando o comprimendo la nostra vita, senza lasciare una traccia, un'indicazione per costruire una geografia del nostro cuore, in cui potersi riconoscere senza doverci temere. Eh sì, perché fa paura quando ciò che si prova è senza nome e il suo percorso è imperscrutabile. I classici, che sono tali perché hanno saputo cogliere le metafore di base dell'umano, ci insegnano i nomi con cui noi possiamo chiamare e richiamare i nostri sentimenti, dialogare con loro, attutire la loro violenza, assecondare la loro dolcezza, accudire la loro incertezza, ribaltarli persino, per scoprire quanto odio c'è sotto il nostro amore, quanta aggressività sotto la nostra cortesia, quanto disprezzo nasconde la nostra lode, quanto ignobile vizio sottende la nostra ostinata virtù. Perché i meandri del cuore sono inaccessibili alla linearità con cui la nostra ragione articola e separa il bene dal male, il vero dal falso, il giusto dall'ingiusto, perché tutto ciò che la ragione distingue il cuore lo fonde e lo con-fonde, per cui il vocabolario della ragione a nulla serve per orientarci nei percorsi segreti e nascosti del cuore. Il trionfo della razionalità, nell'età della tecnica, distribuisce nomi precisi dal significato univoco e non confondibile. Anzi ai nomi, che ancora portano con sé troppa approssimazione, tende a preferire i numeri, soprattutto i numeri primi con cui si costruiscono
i programmi dei nostri computer. Per questo linguaggio, oggi egemone, la domanda di Leopardi: "Dimmi che fai tu Luna in ciel?" è pura insensatezza. Eppure sarà capitato a tutti noi, in una notte ancora lontana dalla luce dell'alba, chiedere alla luna se non proprio che cosa ci fa in cielo, cosa ci facciamo noi sulla Terra. E per questo genere di domande non c'è linguaggio della ragione che sia all'altezza. Qui bisogna scendere nel linguaggio del cuore.
Ma come facciamo se non sappiamo nulla dell'Inferno e del Paradiso perché conosciamo Dante solo perché ci sono delle vie a lui dedicate? Come possiamo reggere il dolore e capire che la malattia è l'ultimo effetto della mancanza d'amore se non siamo mai saliti al sanatorio che Thomas Mann descrive ne La montagna incantata? Come gettare un'occhiata e scoprire qualcosa che passa sotto la soglia della nostra coscienza se non abbiamo mai incontrato Dostoevskij quando, spietatamente e senza infingimenti, scrive le sue Memorie dal sottosuolo.
Che ne sappiamo della "nausea" se Sartre è sparito dalle nostre librerie perché nessuno più lo legge? Che ne sappiamo dello "straniero" e come facciamo a discutere di immigrati, di integrazione e di espulsione se mai abbiamo sperimentato la condizione di straniero e neppure ci siamo fatti aiutare da uno dei capolavori di Camus? Davvero possiamo capire qualcosa della miseria senza aver letto I Miserabili di Victor Hugo? Oppure qualcosa della guerra e della pace, per quel tanto di indistinto e indiscernibile queste due parole, apparentemente opposte, significano, se non abbiamo aperto neppure una pagina del capolavoro di Lev Tolstoj?
Fin qui i classici della letteratura che ci fanno conoscere quel che passa nella nostra anima, semmai la cosa ancora ci riguarda e ancora non siamo giunti a temere noi stessi più di qualsiasi altra cosa. Accanto a loro ci sono i classici della filosofia, utilissimi per correggere le nostre idee. Infatti, oltre ai disagi determinati dalle contorsioni della nostra anima, ci sono i disagi determinati dalla confusione delle idee che condizionano la nostra esistenza, costringendola in una coazione dove le è dato solo di ripetere se stessa senza vie di scampo. Ci sono infatti idee malate che ci fanno smarrire la giusta misura, come le idee del potere, del successo, dell'apparire, altre che affliggono l'anima come l'idea di colpevolezza, di peccato, a retaggio di una cultura religiosa mal intesa. Ci sono poi idee sconosciute come quelle di "tolleranza" su cui Locke ha fatto fondamentali riflessioni, o di "rispetto" a cui Kant ha dedicato pagine elevate. Perché non conoscere poi la differenza che corre tra la giustizia e quel suo correttivo che è l'equità come Aristotele ce la illustra, o le profonde riflessioni sull'amore come Platone ce
le espone nel Simposio. E sulla verità e sulla fede, oggi in rotta di collisione, perché non leggere le pagine di Jaspers che ci fa capire come una dimensione non sia compatibile con l'altra?
Si obietta che la filosofia è difficile. Non è vero. E in ogni caso sempre meno difficile della difficoltà e della resistenza che tutti noi, chi più chi meno, opponiamo alla correzione delle nostre idee, al loro cambiamento, da cui, in una misura che neppure sospettiamo, dipende il cambiamento della nostra vita, la sua capacità di rinnovarsi e di non appiattirsi nella monotonia della ripetizione o affogare nelle semplificazioni dell'ignoranza che sembra non abbia mai dato strumenti particolarmente idonei per vivere.

Il giorno in cui i classici diverranno archeologia, reperti buoni per i musei, seppelliti, quando ancora si dovessero trovare nelle librerie, sotto le montagne di copie dell'ultimo best-seller (espressione questa che serve a segnalare quali sono i peggiori libri in circolazione), allora l'umanità sarà giunta all'ultimo scalino
del suo degrado, e quei pochi individui che ancora leggono quei libri dalle copertine colorate con i titoli in rilievo, ben poco si distingueranno dai loro simili che non leggono e di cui c'è solo da augurarsi che non aprano mai la bocca né in pubblico per non mostrare, insipienti, il vuoto della loro mente, né nell'intimità per non far trasparire, quando non una disarmante banalità, l'afasia del loro cuore insipido, incapace di dar tono, senso ed emozione persino alle movenze standard del loro corpo.

 da Repubblica

 


E.B.Jones

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