In sogno e
ombra silenziosa arriva il refolo
che condurrà distante.
Tu sei cruccio di solitudine, folata
dei venti tra in alte quote boschi,
santo in cammino nello spazio arido,
pallida e lunare, distintamente vedo
la sagoma tua distante tremolare.
Non esiste vicenda di morte
nell’alto limbo, lo spazio celeste
si apre: tu sei lo spazio, tu sei il
celeste, tu sei che apre.
Ne, con uno sguardo ampio e
violento, farai scempio.
I tuoi trionfi misconosciuti, le tue
arditezze.
Le fonti fatte sgorgare tra le crepe
del terreno arido. Il passo del
santo, il passo della santa, il
passo che è assente nel suono,
laddove nessuno ascolta colei che è
accolta.
Nella distesa arida, trionfante
susino.
Albero di nozze chimiche. Albero
dissetatore.
Gravido di frutti è qualunque
errore, frutti della dolcezza nella
zona grave e essa si alza. Frange il
cielo.
Musica è il palpito, non il suono.
Le dita mie inermi chiedono l’arte
della salvezza.
Stregate corde tremare ascoltare in
estremità.
Dov’era andato il tempo, piccola
figlia che si indigna? In ogni conca
è il suo urlo igneo, mai morto, mai
distorto. Precisamente conta i
momenti, gli arti che non controlla,
la folla di istanti che premono
finché non siano liberati.
Chi è la figlia? Di chi? Bambina che
pronuncia sillabe senza suono,
bambina di palpito, bambina di
ruggine scossa.
Lei, tu: osanna costante.
Io: sete che non sa e si strugge.
Guseppe Genna
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