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Cimiteri popolati da
morti e… da vivi
Manila,
capitale delle Filippine, situata in una splendida baia dell’isola
di Luzon, presenta una fisionomia molto eterogenea, poiché ad
architetture barocche si alternano edifici avveniristici ed angoli
di sapore orientale, ma, soprattutto, perchè alla ricchezza di
alcuni quartieri si giustappone la miseria delle “bidonvilles”.
Scrive Tiziano Terzani nel suo interessante lavoro sull’Asia, a
proposito di Manila: “Scivoliamo lungo il
viale passando dinanzi alla serie di imponenti, costosissimi
monumenti costruiti dal regime con la pretesa di grandezza… ma
pochissimo utilizzati. Utilizzati sono invece i grandi prati che ci
stanno attorno. Il verde dell’erba è punteggiato da abitacoli fatti
di foglie di palma e stracci in cui si accampano centinaia di
famiglie di senza tetto”. Poco dopo Terzani aggiunge che dai
magnifici parchi “si levano fumate azzurrognole: i mendicanti
preparano su piccoli falò la loro cena…”.
Ma i
poveri di Manila non occupano solo i parchi… C’è un posto
particolare che hanno colonizzato e dove si possono vedere bambini
seriamente intenti ai loro giochi, donne ai fornelli, vecchiette che
puliscono il pavimento, anziani tranquilli davanti al televisore…
Immagini
da “sabato del villaggio”, con alcune varianti indotte dal progresso
tecnologico.
Ma… “il
villaggio” non è un qualsiasi borgo di una qualsiasi regione. E’ un
cimitero, quello di Manila, appunto. Le cappelle dei ricchi sono
diventate case a tutti gli effetti e i marmi tombali freschi
giacigli, per gente povera che paga l’ospitalità con la cura degli
interni e degli esterni; gli spazi esterni liberi sono vicoli,
vicoletti, piazzette dove i più piccoli trascorrono felici la loro
giornata.
Le
immagini del documentario televisivo della Rai lasciano stupefatti.
Saranno l’estrema povertà, l’istinto di sopravvivenza, la mancanza
di rigide norme igienico-sanitarie, un particolare spirito di
adattamento a determinare ciò? O c’è dell’altro? Per esempio, un
modo diverso di guardare alla morte e alle sepolture da parte di una
civiltà diversa, se pure cristianizzata, in parte, da quella
occidentale. Stentiamo, noi occidentali, ad accettare la morte come
parte della vita, a levarci di dosso la paura dell’estinto e dei
luoghi che lo hanno accolto per sempre; paura diffusa e consolidata
nei secoli del medioevo dal culto cattolico, dalla consuetudine,
riprovevole sotto l’aspetto igienico e psicologico, di seppellire i
morti nelle chiese in tombe le cui lapidi affioravano dal pavimento,
di dipingere cadaveri, scheletri sulle pareti delle case, nei
monasteri, nelle cappelle; paura che, accresciuta da ripugnanti
aspetti estetici, non ancora eliminati, dei luoghi di sepoltura, fu
frequentemente inserita in quel crogiolo di allucinazioni, di
lugubri visioni, di voci sepolcrali e di funebri fantasticherie
proprie dei componimenti dei poeti inglesi preromantici e
cimiteriali, come lo Young, il Parnell, il Gray, lo Harwey,
riecheggiati dai nostri Bartola, Varano, Monti e Pindemonti. Tema
della paura dei morti e dei cimiteri prediletto dalla cinematografia
dell’horror, da registi come Tim Burton, Stephen Sommers e
tantissimi altri.
E… se
anche noi ci convincessimo veramente che i morti non hanno mai fatto
del male a nessuno? Forse potremmo farci, almeno in certi momenti,
reciproca compagnia, dialogare senza l’ipocrisia e le paure
giustificabili solo e soltanto se riferite al mondo dei vivi, anche
a questo nostro mondo d’inizio del terzo millennio.
Simonetta De
Bartolo
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