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Roma, dicembre 2000
Cara Serena
ho letto il tuo libro , anzi ho accettato il passaggio che mi
hai offerto
attraverso i mezzi più moderni ed attuali per rivivere gli anni
della giovinezza,dell'adolescenza a Venezia. Mi hai offerto un
computer (che io non so usare) per entrare in realtà in una
gondola,per salire sui ponti,per traghettare a Burano e al Lido
e godere di un 'atmosfera senza tempo fissata nella memoria di
una vita. Hai saputo riavvicinarmi ai volti della venezia del
'40 e del '50 ai sogni immensi,alle immense paure di una Venezia
buia per la guerra ma che lottava con tutta l'acqua delle sue
vene per restare libera creativa,dispensatrice di sogni. Mi hai
ripresentato uomini grandi e uomini semplici, persone che sono
state il nostro tessuto vitale,il nostro humus. Hai fatto
evocare i paesaggi dove si svolgevano le nostre ore decisive e i
nostri anni. E' passato quasi un secolo e Venezia è il nostro
grande romanzo. Non basterebbero le pagine per dire tutto:
eventi,cuori, cervelli, azioni,delusioni, speranze. Sono stata
bene nel tuo viaggio. Si sono accese tante luci e mi sono anche
commossa per la soluzione "futura"; l'arrivo dei genitori ormai
morti e il loro convivere con vivi e morti in una kermesse
ideale. E sento che c'è un perchè nel loro ritorno,molto
profondo, detto e non detto. Grazie della presentazione, è un
bel passaporto per la mia mostra e il miglior augurio. Tu hai
capito- e dato un ordine a mille scintillanti frammenti.
Chi ha vissuto a Venezia sentirà poesia
leggendoti. Anche chi non la conosce ancora.
Valeria d’Arbela
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Vivo in una città di provincia e di confine,
con pochi invertiti, pochissime prostitute che vengono tutte da
fuori, i soliti ladri e gli ultimi contrabbandieri. Qui non c’è
società intellettuale, caffè letterari, teatri sperimentali,
premi letterari o festival cinematografici, che d’altronde non
servono a nulla. Solo gare di pittura estemporanea, sfilate di bosini, in costume, assegnazioni di Giromette d’oro a
benemeriti, esecuzioni della Corale Boschino, cacce al tesoro,
Volanti d’oro e concorsi Stazioni fiorite. Non ci sono
intellettuali, o se ci sono non si fanno riconoscere per tali.
Ci sono architetti, due o tre, ma fingono di lavorare a Milano.
Qui lavorano i capomastri, i costruttori e gli edili a drizzar
condomini nelle campagne e nelle vecchie piazze, addosso alle
chiese, tra due casupole o nel mezzo dei viali. Nessuna eco
della politica qui giunge, nessuna indiscrezione degli
ambienti bene informati o dei circoli vicini ai ministri,
niente comunicati del potere economico. Come potrei di qui, da
questa crosta di vita che non fa rumore, uscire in magnifiche
invettive e servirmi degli ingredienti che occorrono a un pezzo
che sia forte, saporito, pregno di attualità?
Qui gli avvenimenti principali sono stati
quest’anno la morte di una decina di persone avvelenate dai
funghi, la mala sorte di una squadra sportiva, la frana sulla
statale 707 col telegramma di protesta del Presidente della
Provincia al governo, l’investimento di un notaio e l’arresto
per atti osceni di un portinaio trovato in possesso di uno
strumento che tentava di far passare per un’ocarina.
Posso quindi notificare soltanto la presenza, nel sottosuolo,
delle feci dei palafitticoli, messe in luce da nuovi scavi
stratigrafici, il rinvenimento, in montagna, di un ossobuco
antidiluviano, le imprese del gruppo speleologico che alla
domenica scende al completo in una cavità naturale (…).
Dimenticavo le marce podistiche, che sono ormai centinaia e che
popolano le strade comunali e provinciali di professionisti e
operai in tuta, con le natiche strette e i gomiti ad angolo,
tesi nello sforzo della maratona. Un reazionario, parafrasando i
soliti titoli delle marce, ne ha lanciata una, personalissima,
di suo uso e consumo: “Quater pass e una ciulada”.
Non rimproveratemi di poca attività o di poca fantasia: vi ho
detto tutto. Posso aver dimenticato dei particolari, quelle
minuzie indegne di cronaca nelle quali affonda, felice e
ignara, la provincia. Minuzie buone solo per me che nella
provincia navigo in silenzio, attento a non svelarne l’enorme
importanza per timore che i sociologi, i letterati, i
sindacalisti, i sottosegretari, gli umoristi e gli altri uomini
di primo piano, vengano a disturbarmi nel meglio dei miei
godimenti, cioè nel pieno del mio lavoro più serio, che è
quello di vivere. Perdonatemi tanta presunzione o speranza.
Piero Chiara
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Seneca
Lettera a Lucilio
1 Mi scrivi che hai dato a un tuo amico delle lettere
da consegnarmi; mi inviti poi a non discutere con lui di
tutto quello che ti riguarda, poiché tu stesso non ne hai
l'abitudine. Così nella stessa lettera affermi e poi neghi
che quello è tuo amico. Se usi una parola specifica in
senso generico e lo chiami amico come noi chiamiamo
"onorevoli" tutti quelli che aspirano a una carica pubblica,
oppure salutiamo con un "caro" chi incontriamo, se il nome
non ci viene in mente, lasciamo perdere.
2 Ma se consideri amico uno e non ti fidi di lui come
di te stesso, sbagli di grosso e non conosci abbastanza il
valore della vera amicizia. Con un amico decidi
tranquillamente di tutto, ma prima decidi se è un amico: una
volta che hai fatto amicizia, ti devi fidare; prima, però,
devi decidere se è vera amicizia. (…) Rifletti a lungo se è
il caso di accogliere qualcuno come amico, ma, una volta
deciso, accoglilo con tutto il cuore e parla con lui
apertamente come con te stesso.
3 Vivi in modo da non aver segreti nemmeno per i tuoi
nemici. Poiché, però ci sono cose che è abitudine tener
nascoste, dividi con l'amico ogni tua preoccupazione, ogni
tuo pensiero. Se lo giudichi fidato, lo renderai anche tale.
(...)
4 C'è gente che racconta al primo venuto fatti che si
dovrebbero confidare solo agli amici e scarica nelle
orecchie di uno qualunque i propri tormenti. Altri, invece,
temono persino che le persone più care vengano a sapere le
cose e nascondono sempre più dentro ogni segreto, per non
confidarlo, se potessero, neppure a se stessi. Sono due
comportamenti da evitare perché è un errore sia credere a
tutti, sia non credere a nessuno
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