Noi, i forzati
del desiderio
Umberto Galimberti
I Nuovi Vizi - Sette come quelli capitali, ma
l’epoca moderna si e arricchita di altre patologie
Perché il consumismo è un vizio? Un vizio nuovo, perché
sconosciuto alle generazioni che ci hanno preceduto. Non è
forse vero che il consumo sollecita la produzione aiuta la
crescita che tutti i paesi assumono come indicatore di
benessere e si allarmano quando oscilla intorno allo zero?
Perché il consumismo è un vizio se è vero che mette
alla porta di tutti una serie di scelte personali che un
tempo erano riservate solo ai ricchi?
E cioè una varietà di alimenti che i nostri vecchi si
sognavano, possibilità d’abbigliamento sconosciute alle
generazioni precedenti, una serie infinita di
elettrodomestici che riducono la fatica in casa regalando a
chi ci vive, tempo libero per altre e più proficue attività?
Perché il consumismo è un vizio? Perché crea in noi
una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che
solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il
principio del consumo e della distruzione degli oggetti,
possiamo garantirci identità, stato sociale , esercizio
della libertà e benessere. Ma vediamo le cose più da vicino.
1. La circolarità produzione consumo. E’ noto che produzione
e consumo sono due aspetti di un medesimo processo, dove
decisivo è il carattere “circolare” del processo, nel senso
che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma
si producono anche bisogni per garantire la continuità della
produzione delle merci.
Là infatti dove la produzione non tollera
interruzioni, le merci “hanno bisogno” di essere consumate,
e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si
sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno si
“prodotto”.
A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di
pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle
merci di essere consumate. I suoi inviti sono esplicite
richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e
che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri
nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che “non si può
non avere”. In una società opulenta come la nostra, dove
l’identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti
che possiede, i quali non solo sostituibili, ma “devono”
essere sostituiti, ogni pubblicità è un appello alla
distruzione.
2. Il principio della distruzione. Si tratta della
distruzione, ma se l’espressione vi pare troppo forte usiamo
pure la parola “consumo”, che non è la “fine” naturale di
ogni prodotto, ma “il suo fine”. E questo non solo perché
altrimenti si interromperebbe la catena produttiva, ma
perché il progresso tecnico, sopravanzando le sue
produzioni, rende obsoleti i prodotti, la cui fine non segna
la conclusione di un’esistenza, ma fin dall’inizio ne
costituisce lo scopo. In questo processo la produzione
economica usa i consumatori come i suoi alleati per
garantire la mortalità dei suoi prodotti, che poi la
garanzia della sua immortalità.
Come condizione essenziale della produzione e del
progresso tecnico, il consumo costretto a diventare “consumo
forzato”, comincia a profilarsi come figura della
distruttività, e la distruttività come un imperativo
funzionale dell’apparato economico. Il “rispetto”, che Kant
indicava come fondamento della legge morale, è disfunzionale
al mondo dell’economia che, creando un mondo di cose
sostituibili con modelli più avanzati, produce di continuo
“un mondo da buttar via”. E siccome è molto improbabile che
un’umanità, educata alla più spietata mancanza di rispetto
nei confronti delle cose, mantenga questa virtù nei
confronti degli uomini, non possiamo non convenire con
Gunther Anders per il quale: “ L’umanità che tratta il mondo
come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come
un‘umanità da buttar via”.
3. L’inconsistenza delle cose. Che ne è delle cose,
della loro consistenza, della loro durata, della loro
stabilità? Da sempre le cose si consumano e diventano
inutilizzabili, ma, nel ciclo produzione-consumo che non può
interrompersi, esse sono pensate in vista di una loro rapida
inutilizzabilità. Infatti è prevista non solo la loro
transitorietà, ma addirittura la loro “data di scadenza” che
è necessario sia il più possibile a breve termine. E così
invece di limitarsi a concludere la loro esistenza, la fine
delle cose è pensata sin dall’inizio come il loro scopo.
In questo processo, dove il principio della
distruzione è immanente alla produzione, l’”uso” delle cose
deve coincidere il più possibile con la loro “usura”. E se
questo non è possibile per l’intero prodotto perché nessuno
l’acquisterebbe, è sufficiente che lo sia per i pezzi di
ricambio, il cui costo deve essere portato a livelli tali
che persino piccole riparazioni vengano a costare, se non di
più, almeno come un nuovo acquisto. Se questo non basta sarà
la pubblicità a persuaderci che anche se la nostra
automobile tecnicamente funziona ancora nel migliore dei
modi, è il caso di sostituirla, perché “socialmente
inadatta” e in ogni caso “non idonea al nostro prestigio”.
4. Il dissolvimento della durata temporale. Il tratto
nichilista dell’economia consumista che vive della negazione
del mondo da essa prodotto perché la sua permanenza
significherebbe la sua fine, destruttura nei consumatori la
dimensione del tempo, sostituendo alla durata temporale, che
è fatta di passato, presente e futuro, la precarietà di un
assoluto presente che non deve avere alcun rapporto col
passato e col futuro.
E allora oltre alla produzione forzata del bisogno,
ben oltre i limiti della sua rigenerazione fisiologica, il
consumismo utilizza strategie, come ad esempio la moda, per
opporsi alla resistenza dei prodotti, in modo da rendere ciò
che è ancora “materialmente” utilizzabile, “socialmente”
inutilizzabile, e perciò bisognoso di essere sostituito. E
questo non vale solo per le innovazioni tecnologiche
(televisioni, computer, cellulari), o per il guardaroba
femminile (e oggi anche maschile), ma, e qui precipitiamo
nell’assurdo, anche per gli armamenti.
Se un armamento resta inutilizzato per mancanza di
guerre e quindi di potenziali acquirenti, o si inventano
conflitti per “ragioni umanitarie”, o si producono armi
“migliori” che rendono obsolete quelle precedenti. Anche se
si fatica a capire in che cosa consista il “miglioramento”
in una situazione in cui, con le armi a disposizione, già
esiste per l’umanità la possibilità di sterminare se stessa
in modo totale. Che senso ha in questo caso mettere sul
mercato qualcosa di “meglio”?
5. La crisi dell’identità personale. Viene ora da
chiedersi: quali sono gli effetti della cultura del
consumismo sulla costruzione e sul mantenimento
dell’identità personale? Disastrosi. Perché là dove le cose
perdono la loro consistenza, il mondo diventa evanescente e
con il mondo al nostra identità. Infatti, là dove gli
oggetti durevoli sono sostituiti da prodotti destinati
all’obsolescenza immediata, l’individuo, senza più punti di
riferimento o luoghi di ancoraggio per la sua identità,
perde la continuità della sua vita psichica, perché quell’ordine
di riferimenti costanti, che è alla base della propria
identità, si dissolve in una serie di riflessi fugaci, che
sono le uniche risposte possibili a quel senso diffuso di
irrealtà che la cultura del consumismo diffonde come
immagine del mondo.
Là infatti dove un mondo fidato di oggetti e di
sentimenti durevoli viene via via sostituito da un mondo
popolato da immagini sfarfallanti, che si dissolvono con la
stessa rapidità con cui appaiono, diventa sempre più
difficile distinguere tra sogno e realtà, tra immaginazione
e dati di fatto.
6. L’evanescenza della libertà. In una cultura del
consumo dove nulla è durevole, la libertà non è più la
scelta di una linea d’azione che porta all’individuazione,
ma è la scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere,
dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e
scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare
con gli abiti.
Ma là dove la scelta non produce differenze, non
modifica il corso delle cose, non avvia una catena di eventi
che può risultare irreversibile, perché tutto è
intercambiabile: dalle relazioni agli amanti, dai lavori ai
vicini di casa, allora anche i rapporti fra gli uomini
riproducono alla lettera i rapporti con i prodotti di
consumo, dove il principio dell’”usa e getta” regola sia le
“relazioni matrimoniali” sia le ”relazioni senza impegno”.
Che fare? Nulla. Perché l’identità personale a cui
fare appello per arginare gli inconvenienti del consumismo
non c’è più, essendo stata a sua volta risolta in un insieme
di bisogni e desideri programmati dal mercato.
A differenza dei ”vizi capitali”che segnalano una
“deviazione” della personalità i “nuovi vizi” ne segnalano
il “dissolvimento” ,che tra l’altro non è neppure avvertito,
perché investe indiscriminatamente tutti. I “nuovi vizi”,
infatti, non sono personali, ma tendenze collettive, a cui
l’individuo non può opporre una efficace resistenza
individuale, pena l’esclusione sociale. E allora perché
parlarne? Per esserne almeno consapevoli, e non scambiare
come “valori della modernità” Quelli che invece sono solo i
suoi disastrosi inconvenienti.
Umberto Galimberti
La Repubblica - 18/04/2008
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