La selezione di film, che sarà
ospitata in questo spazio, si ispira al “ tema della morte ”. La
morte visitata da diversi punti di vista: come la nuda e cruda
pratica dell’attuazione della “ pena di morte, come accettazione
del proprio destino e malattia....oppure, la sua negazione totale. Alcuni film hanno come sfondo l'oscuro
presagio della morte, altri, invece, indagano il sentimento che
scaturisce dalla perdita di una persona amata e le conseguenze che
si trascina quel vuoto che essa ha lasciato. Altri film toccano il tema della morte in
quanto scelta consapevole. Alcuni registi e sceneggiatori riescono
addirittura a consegnarci la poetica dell'accettazione della morte. A voi la decisione se approfondire o meno questa
tematica che, volenti o nolenti, ci riguarda tutti da vicino: "Tra cento anni saremo tutti morti"...
Come introduzione, questo articolo
mi sembra proprio l’ideale per aprire le nostre pagine.
CIAK: SI MUORE
Il Festival dei popoli di Firenze ha proposto nel 1999 tra le sue
sezioni, una riflessione dedicata al tema della morte al cinema, dalla
messa in scena della morte, quella recitata, alla morte reale come
soggetto di una ripresa cinematografica, dalla morte dentro il set fino
alla morte del cinema stesso.
Nella narrazione cinematografica, la morte può costituire il motore del
racconto, collocata all'inizio o alla fine della storia: essa sembra
essere, in alcuni casi (Viale del tramonto di Billy Wilder) l'unica
condizione da cui sia possibile raccontare la vita: morte come
insostituibile e inevitabile compimento, che dà senso retrospettivamente
all'intera esistenza, al pari del montaggio per il materiale di un film,
secondo l'analisi pasoliniana, confermata dal suo percorso cristologico
da Accattone fino al Vangelo secondo Matteo.
Fin dalle origini del cinema, le immagini sullo schermo sono state
interpretate come figure provenienti dal mondo delle ombre, spettri da
un altro tempo e da un altro luogo, in grado di aggiungere una
dimensione in più alla nostra esistenza quotidiana. Wilder, invece, ci
propone il cinema come fonte di vita dei suoi protagonisti (Norma
Desmond/Gloria Swanson), al di fuori del quale vi è soltanto
un'esistenza anonima che equivale alla morte.
La morte, messa in scena, contiene in sé grandi potenzialità
affabulatorie, come dimostra l'intera opera di Peter Greenaway, di cui
abbiamo visto Les morts de la Seine, una finestra sulla Francia
rivoluzionaria, attraverso un'elencazione necrofila che si rivela una
notevole fonte di storie e curiosità, recuperando la memoria di vite che
nessuno ricorda più, la cui morte è stata registrata in un calendario,
quello rivoluzionario, anch'esso scomparso.
Il cinema ha rappresentato anche la morte che non appartiene alla
finzione ma al mondo reale: quella morte reale filmata che, secondo la
visione umanistica del cinema di Jean-Louis Comolli, cancella il
desiderio vivo dello spettatore che il film resista alla morte e allo
stesso tempo annulla il "prima" e il "dopo" della narrazione, salvo che
la morte venga deliberatamente provocata per filmarla (snuff-movies)
ovvero che il cinema filmi il processo di avvicinamento alla morte.
Quest'ultima ipotesi può contare su numerosi esempi, in un mix tra
realtà e messa in scena dai confini non sempre decifrabili: la morte
naturale, in film che hanno come soggetto la lenta agonia del
protagonista malato - Nicholas Ray in Nick's movie di Wim Wenders - e,
allo stesso tempo, rappresentano l'ultima recita nel palcoscenico della
vita - nel documentario Sehnsucht Nach Sodom, sulla malattia di Kurt
Raab, uno degli attori prediletti di Fassbinder; la morte procurata
dalla legge, di cui il cinema sottolinea la gratuità nei numerosi
docufilm che testimoniano storie di condannati a morte, riuscendo in
rari casi anche a intervenire sulla realtà, modificandone l'esito - The
Thin Blue Line, di Errol Morris, che riuscì anche ad ottenere la
revisione del processo.
Il cinema di fiction ha riflettuto, e non da oggi, sulla
spettacolarizzazione della morte attraverso le immagini e i media in
generale: pensiamo a La morte in diretta di Bertrand Tavernier, in cui
gli occhi del protagonista diventano una telecamera per filmare gli
ultimi giorni di Romy Schneider, o a La decima vittima di Elio Petri,
fantascienza nei toni della commedia su un mondo in cui ogni angolo di
strada si trasforma in set della lotta tra cacciatori e prede, o ancora
a Il cameramen e l'assassino, parossistico reportage televisivo sulla
vita quotidiana e le efferatezze di un serial-killer. In tempi non
sospetti, il cinema ha descritto l'ossessione per la morte filmata:
pensiamo a L'occhio che uccide di Michael Powell, che prefigura, nel
1960, il fenomeno contemporaneo ed illegale degli snuff-movies. E
proprio la vittima di uno snuff-movie è il protagonista di The Brave di
Johnny Depp, che, con il compenso per questo sacrificio volontario,
cerca di salvare la propria famiglia dalla miseria: la morte al cinema
diventa fonte di sopravvivenza.
La morte nel making del cinema è un motivo che, fin dalle origini,
ritroviamo come rischio connaturato alla lavorazione, il cinema cioè
partecipa della morte che si svolge davanti al suo obiettivo (peraltro,
ogni set cinematografico ricorda un funerale secondo J. L. Comolli: il
silenzio, la posizione dei tecnici, la gravità e la solennità che lo
caratterizzano). Si tratta in questo caso di una morte bianca, il cui
rischio è ben presente all'intero sistema cinematografico, che anzi
intende in tal modo soddisfare il desiderio dello spettatore di spingere
sempre oltre il limite di resistenza dei corpi immaginari dello schermo,
mantenendosi però una sorta di distanza di sicurezza dal fenomeno
rappresentato, anche se in epoca di interattività, l'atteggiamento dello
spettatore è cambiato radicalmente. Questa morte sul set è diventata
anche soggetto di film: da Shooting Stars (1929) di Asquith e Bramble,
autentica rarità, in cui la morte di un'anonima controfigura non ferma
la lavorazione del film e si assiste alla realtà della finzione della
morte, a La ricotta di Pasolini, nel quale Stracci, comparsa di
Cinecittà, sempre alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti,
muore come ladrone sulla croce... per indigestione.
La negazione della morte, l'immortalità, ha rappresentato un altro
soggetto ricorrente, a partire da quella che il cinema stesso ha
garantito ai suoi protagonisti, preservando le immagini dei loro corpi e
dei loro volti, proprio mentre filmando il tempo ne attestava il
progressivo invecchiamento; ne sono ulteriori esempi: l'immortalità
concessa all'eroe, come è il caso di Che Guevara, mostrato cadavere nel
film El dia que me quieras, ma nella fierezza di chi ha combattuto per i
propri ideali senza arrendersi fino all'ultimo, che ne preserva il mito;
l'immortalità del mostro, il non-morto del cinema horror, che ha per
protagonisti vampiri, mummie, zombie (ma in Dellamorte Dellamore,
ispirato a un romanzo di Tiziano Sclavi, la prospettiva si ribalta e i
vivi sono più spietati dei morti); per arrivare al mito dell'immortalità
in Orphée, di Jean Cocteau, che per amore arriva a sconfiggere la morte
attraverso una discesa negli Inferi, passando, come Alice, attraverso lo
specchio. Di questo tema della discesa agli inferi e della possibile
resurrezione il cinema conta numerose versioni contemporanee, da
Apocalipse now di Coppola a Blade Runner di Scott.
Il cinema è una malattia, crea dipendenza ("l'antidoto al cinema è più
cinema" secondo Scorsese), uccide, ma anche ridà la vita: in un racconto
di Robert Bloch, nella raccolta einaudiana "Lo schermo dell'incubo",
anonime comparse di Hollywood riescono a infilarsi nelle immagini di
vecchi film restaurati e dall'angolo dello schermo salutano e sorridono.
Tutto ciò fintanto che l'usura delle pellicole, la morte definitiva del
cinema, non cancellerà tutte quelle figure la cui immortalità è legata
alla celluloide.
Paolo Baldi
Articolo di
Paolo Baldi pubblicato nella rubrica
CINEMA del n.50
di KULT Underground il 2/1999
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