DAL LIBRO Il CACCIATORE DI AQUILONI
di
Khaled Hosseini
L'ultima lettera dell'amico:
"Amir agha, purtroppo l' Afghanistan della nostra infanzia è
morto da tanto tempo. La gentilezza non abita più nel nostro
paese. Kabul è in preda al terrore. Nelle strade, allo stadio,
nei mercati, fa parte della nostra vita quotidiana, Amir agha. I
selvaggi governano. (...) Recentemente sogno molto (...) Sogno
che mio figlio crescendo diventerà una brava persona, una
persona libera e importante: Sogno che i fiori lawla torneranno
a fiorire per le strade di Kabul, che nelle sale da thé potremo
di nuovo ascoltare la musica del rubab e che in cielo voleranno
ancora gli aquiloni. E sogno che un giorno tornerai a Kabul a
rivedere la terra della tua infanzia . Se lo farai, troverai ad
aspettarti un vecchio amico fedele."
Sono diventato la
persona che sono all’età di dodici anni, in una gelida giornata
invernale del 1975. Ricordo il momento preciso: ero accosciato
dietro un muro di argilla mezzo diroccato e sbirciavo di
nascosto nel vicolo lungo il torrente ghiacciato. È stato tanto
tempo fa. Ma non è vero, come dicono molti, che si può
seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli
al presente. Sono ventisei anni che sbircio di nascosto in quel
vicolo deserto. Oggi me ne rendo conto.Nell’estate
del 2001 mi telefonò dal Pakistan il mio amico Rahim Khan. Mi
chiese di andarlo a trovare. In piedi in cucina, il ricevitore
incollato all’orecchio, sapevo che in linea non c’era solo Rahim
Khan. C’era anche il mio passato di peccati non espiati. Dopo la
telefonata andai a fare una passeggiata intorno al lago
Spreckels. Il sole scintillava sull’acqua dove dozzine di barche
in miniatura navigavano sospinte da una brezza frizzante. In
cielo due aquiloni rossi con lunghe code azzurre volavano sopra
i mulini a vento, fianco a fianco, come occhi che osservassero
dall’alto San Francisco, la mia città d’adozione.
Improvvisamente sentii la voce di Hassan che mi sussurrava: Per
te qualsiasi cosa. Hassan, il cacciatore di aquiloni.
LETTERE
LUTERANE
La droga è sempre un surrogato. E precisamente un
surrogato della cultura. [...] la droga viene a riempire un
vuoto causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un
vuoto di cultura. Per amare la cultura occorre una forte
vitalità. Perché la cultura – in senso specifico o, meglio,
classista – è un possesso: e niente necessita di una più
accanita e matta energia che il desiderio di possesso. [...]
Anche a un livello più alto si verifica qualcosa di simile [...]
ma stavolta si tratta non semplicemente di un vuoto di cultura,
bensì di un vuoto di necessità e di immaginazione. La droga in
tal caso serve a sostituire la grazia con la disperazione, lo
stile con la maniera. (La droga: una vera tragedia italiana:
p. 87)
Che cos'è che ha trasformato i proletari
e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo
borghesi, divorati, per di più, dall'ansia economica di esserlo?
Che cos'è che ha trasformato le «masse» dei giovani in «masse»
di criminaloidi? L'ho detto e ripetuto ormai decine di volte:
una «seconda» rivoluzione industriale che in realtà in Italia è
la «prima»: il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo
«reale», trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c'è più
scelta possibile tra male e bene. Donde l'ambiguità che
caratterizza i criminali: e la loro ferocia, prodotta
dall'assoluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore.
Non c'è stata in loro scelta tra male e bene: ma una scelta
tuttavia c'è stata: la scelta dell'impietrimento, della mancanza
di ogni pietà. (Due modeste proposte per eliminare la
criminalità in Italia: p. 168)
L'Italia – e non solo l'Italia del
Palazzo e del potere – è un Paese ridicolo e sinistro: i suoi
potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di
sangue: «contaminazioni» tra Molière e il Grand Guignol. Ma i
cittadini italiani non sono da meno. Li ho visti, li ho visti in
folla a Ferragosto. Erano l'immagine della frenesia più
insolente. Ponevano un tale impegno nel divertirsi a tutti i
costi, che parevano in uno stato di «raptus»: era difficile non
considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti.
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